«Volevo raccontare questa storia per portare l'attenzione su come la discriminazione e il male generano a loro volta molto male»
BELLINZONA - Una storia spesso dimenticata che torna con urgenza in un clima di odio verso il prossimo in crescita. È quella della persecuzione della popolazione nomade Jenisch avvenuta in Svizzera agli inizi del 1800 e tra il 1926 e il 1974. E raccontata nel film "Lubo", per la regia del più volte David di Donatello Giorgio Diritti. Ispiratosi al libro di Mario Cavatore "Il seminatore", il regista italiano non aveva mai sentito parlare prima di alcuni anni fa del dramma accaduto nella Confederazione. E scoprire questo lato nascosto di un luogo che tanto ammira gli ha dato lo slancio per realizzare un lungometraggio, tanto triste quanto commovente e forte.
"Lubo" è il dramma di un'intera popolazione, racchiuso nella ricerca di un solo uomo che, allontanato dalla sua famiglia per mano della Confederazione, la perde per sempre. La ricerca dei suoi figli lo porterà a viaggiare tra il canton Grigioni, San Gallo e Zurigo, fino a scendere fino in Ticino a Bellinzona.
Giorgio Diritti presenterà "Lubo" al festival Castellinaria di Bellinzona il prossimo 19 novembre alle ore 20. Nell’attesa, lo abbiamo incontrato.
Quello della persecuzione è un tema che sta tornando di grande attualità, con migliaia di attacchi antisemiti in Europa in pochissime settimane. Ma non solo. Politiche basate sull’odio dell’altro, il nemico da trovare… Tanto che quasi sembra basti un attimo a far scomparire decenni di sensibilizzazione.
«Purtroppo un po’ è vero. Ci deve essere sempre un grande sforzo per riportare l'attenzione su quelle che sono le discriminazioni, le schifezze che l'uomo fa, le guerre. Sembra di essere in una dimensione di quasi sospensione, di allontanamento dalla riflessione che poi porta a far sì che le cose accadano. Pensando anche a questo film, non avrei mai immaginato che tra la realizzazione e l'uscita ci si sarebbe trovati nella condizione di vedere che i bambini ucraini vengono portati in Russia, che c'è questa guerra pazzesca tra Israele e Hamas. Forse il senso del cinema sta anche nel continuare a insistere e ad avere la determinazione nel trasferire quella che è un'attenzione al ritorno della vita come priorità».
Cosa l'ha colpita del romanzo di Mario Cavatore a tal punto da farne un film?
«In primo luogo il fatto di scoprire una storia che mi è sembrata in grande contrasto con l'immagine che avevo della Svizzera di cui ho sempre stimato il senso civico, democratico e anche la dimensione sociale. È un Paese che amo tuttora. Però di fronte a questa vicenda ho pensato che sarebbe stato interessante raccontarla perché c'è stato un momento di grande discriminazione. Essendo anche molto attento in generale nel mio lavoro alla dimensione dell'infanzia e dell'adolescenza, ho sentito la necessità di raccontare questa storia per riportare anche l'attenzione su come la discriminazione e il male generano a loro volta molto male. "Lubo" è, penso, una traccia di riflessione: da un punto di vista storico, ma anche in una prospettiva più propositiva sull'attualità».
Ora che ha avuto modo di osservare questa Svizzera in qualità di osservatore esterno, secondo lei un Paese può arrivare a fare sufficientemente i conti con un background simile?
«Questo dipende dalla volontà di istituzioni e cittadini. Purtroppo solo il tempo dà una risposta. C'è stato comunque sicuramente dal punto di vista generale un effettivo riconoscimento dell'errore fatto. Da un lato, nelle pagine Internet della Pro Juventute è ben esplicitata questa cosa e c'è stato anche un rimborso economico. Poi sta alla coscienza delle persone andare oltre e vigilare perché cose di questo tipo non accadono più. E dall'altro lato è indubbio che molto probabilmente tante persone che hanno subito questa discriminazione e violenza non sono neanche state censite o risarcite».
Nella realizzazione del film ha avuto modo di confrontarsi con delle persone che fanno parte di questa comunità ?
«Sì, sia nella fase di pre-scrittura, sia nella realizzazione vera e propria. In particolare abbiamo conosciuto una signora che ha subito questo tipo di soprusi. Poi è diventata anche la nostra coach di lingua Jenisch sul set. Abbiamo coinvolto diverse persone sul set. C'è stato uno scambio molto utile e ricco. Nel tempo questi incontri sono anche diventati una fonte di energia: mi sono sentito ancora più motivato a fare questo lavoro. La carica emotiva che ti dà il racconto diretto di persone che hanno vissuto in venti collegi ti fa avere quella determinazione in più, un senso civico ancora più forte».
Soprattutto in questo periodo, siamo costantemente esposti a storie e drammi. Le capita mai di sentire il bisogno di proteggersi dal continuo flusso di notizie sulle guerre e sulla cattiveria umana?
«Cerco di non essere indifferente e di avere un equilibrio. Sicuramente proteggersi è un po' impossibile, a meno che uno non sia totalmente cinico. Poi per carità: la vita va avanti e ognuno ha il suo percorso. È vero che ci sono sempre state delle guerre, ma questo è un momento storico in cui forse più che in altri si sente il rischio di una dimensione di conflittualità. Purtroppo sembra che l'uomo non riesca a fare a meno di esercitare la violenza. Questa è una delle cose che nel tempo mi rende sempre più triste: la diplomazia o il quieto vivere diventano sempre più vulnerabili. Per me è un dispiacere profondo. Si spera che nel tempo le cose migliorino, ma c’è sempre qualcosa di più forte che finisce per sovrastare tutto il resto. Forse sono le dinamiche delle aziende di armamenti, forse sono semplicemente le tensioni. Forse è che nella dimensione educativa non si è fatto abbastanza per seminare una priorità di convivenza civile e di pace».
Come se l'impegno del singolo venisse meno a causa di un'entità o di qualcosa di sempre più grande…
«Anche la differenza tra le varie istituzioni e parti del mondo. C’è chi ha fame e voglia di vedere cosa c’è dall’altra parte. E per fame non intendo solo mangiare, ma nel senso del benessere, dello studio e della voglia di raggiungere i propri obiettivi. Questo crea già una dimensione migratoria che però non viene accettata. Poi c’è la sopraffazione: il Paese povero che si fa sfruttare. Come la Cina ha fatto con l’Africa. Resta che bisogna andare avanti con fiducia. Credere e sperare che anche i piccoli segni, come questo film, aiutino a creare una coscienza positiva. Io credo e penso che sia una delle cose importanti della mia scelta di lavoro».