«Nel 2004/05 feci l’errore più grande della carriera. E giocai una stagione… posso dirlo? Di me**a»
«La politica? Adrenalina, come quando giocavo. Spero di prendere delle decisioni che possano aiutare a rendere migliore la vita delle persone».
LUGANO - Bandiera. Simbolo. Colonna portante. Spesso, nello sport, termini del genere si usano a sproposito. Sull’onda di un entusiasmo molto, molto temporaneo, si appiccicano a giocatori non del tutto meritevoli. A Jean-Jacques Aeschlimann, invece, “definizioni” del genere calzano a pennello. Lui che è cresciuto e si è affermato a Bienne, lui che ha segnato un’epoca a Lugano, lui che è stato un punto fermo della Nazionale.
Per “arrivare”, JJ è però dovuto partire da lontano, da una casa nella quale la disciplina sportiva era la normalità.
«Per ventiquattro ore al giorno - ci ha raccontato il dirigente bianconero - Ma era inevitabile, tenuto conto che mio nonno ciclista ha preso parte, tra le altre corse, a quattro Tour de France, sei Tour de Suisse e un Giro d'Italia, e che mio padre ha giocato per quasi vent’anni e poi è stato dirigente a Bienne. Io e i miei fratelli abbiamo insomma subìto un lavaggio del cervello, in senso positivo, su cosa e come fare per arrivare all’obiettivo. Cosa mangiare, quanto dormire… Il nostro idolo d’infanzia - perché il papà è questo - era l’esempio perfetto da seguire per diventare degli sportivi di alto livello. È stato ovviamente un vantaggio per me crescere in un contesto del genere».
In casa hai avuto un esempio. Da genitore di un bambino fattosi uomo e diventato professionista (Marc, ora in pista con il La Chaux-de-Fonds) hai fatto come tuo padre fece con te?
«Sì, esattamente. A torto o a ragione, non mi sono mai immischiato nelle sue cose. Davanti a un suo dubbio o a una sua domanda non mi sono nascosto, ma ho contemporaneamente evitato di impormi o di dare consigli non richiesti. Questo perché sono convinto che un ragazzo debba fare la sua carriera da solo. Solo all’inizio, come mio padre fece con me, gli ho dato una piccola spinta. Poi è stato lui a pedalare».
Un marchio di fabbrica?
«C’è un aneddoto. Quando cominciai, lo spogliatoio, pieno di bambini che urlavano e correvano, non è che mi piacesse poi molto. A un certo punto, stanco, dissi a mio padre che non sarei più andato. Lui mi rispose: “Non ci sono problemi. Ti abbiamo appena comprato tutta l’attrezzatura, vorrà dire che la regaleremo al vicino di casa, che sarà contentissimo di poterla utilizzare”. E io, pur di non veder dare via le mie cose, continuai. Con Marc è successo qualcosa di simile. Inizialmente, sul ghiaccio, non voleva proprio pattinare. Si nascondeva sotto la panchina. Mi venne in mente il “trucco” di papà e feci lo stesso. “Va bene, se non vuoi, le tue cose le daremo a qualcun altro”. Sta giocando ancora adesso…».
Nel 1991 lasciasti Bienne per andare a Lugano. Volevi affrancarti da tuo padre?
«No, per nulla. Ero in squadra da sette stagioni e, semplicemente, sentivo il bisogno di cambiare».
Il Lugano ti coccolò e…
«La storia è simpatica. Conoscevo bene il Ticino perché venivo spesso in vacanza con la famiglia a Bissone. Poi, durante una trasferta con la squadra, Lugano mi colpì particolarmente. Conservo ancora oggi in mente un’immagine molto forte: sarà stato gennaio, forse febbraio, e c’erano le cime innevate, le palme e il cielo blu. Senza nulla togliere a Bienne… Rimasi folgorato. Mi dissi che sarebbe stato bello giocare qui. E quando il club mi cercò…».
La trattativa fu facile.
«Quando lo venni a sapere, sì. Ma non filò subito tutto liscio. Fausto Senni, l’allora direttore sportivo bianconero, mi cercò spesso a casa. Al telefono rispondeva sempre mia madre, che poi però evitava di passarmi le chiamate o di raccontarmi dell’interessamento. Non voleva che me ne andassi. Anche se avevo 24 anni, ero sempre il suo bambino. Da Lugano non si diedero comunque per vinti e passarono allora da mio padre. A quel punto giungemmo velocemente alla firma. A dire il vero, nello stesso periodo fui contattato anche dal Kloten. Gli Aviatori arrivarono però tardi, quando con i bianconeri tutto era stato sistemato».
Saresti stato in dubbio?
«No, per nulla. Anche se poi… il Kloten vinse quattro campionati in fila mentre io dovetti attendere otto anni per raggiungere il primo. Il fatto che sia ancora qui in Ticino dimostra in ogni caso che più che scegliere una società, feci una scelta di vita. Questo nonostante il titolo sia qualcosa di estremamente prezioso».
Il picco della carriera?
«Il primo titolo, di sicuro. Ma a pari merito con la cerimonia dei Giochi Olimpici. Chi ha la fortuna di partecipare… si vivono emozioni impareggiabili».
Nel 2005 finì la tua avventura con il Lugano. Chiudesti o ti fecero chiudere?
«Nell’estate del 2004, prima dell’inizio della stagione, mi comunicarono che quella sarebbe stata l’ultima. Che non ci sarebbe stato alcun rinnovo. E, testualmente, mi dissero: “Un anno potresti giocare perché sei ancora meglio di altri in rosa, ma dobbiamo ringiovanire”. Passi per il ringiovanimento della rosa, ma il “sei ancora meglio di altri” fu una mazzata. Fu frustrante».
La tua reazione quale fu?
«Feci lo sbaglio più grande mai fatto. Determinato a dimostrare che la dirigenza stesse commettendo un grave errore, giocai con la pressione addosso, giocai quando non ero al meglio e così facendo giocai una stagione… posso dirlo? Di me**a. Il risultato fu che finii per confermare che la decisione presa dal club era quella corretta. A gennaio-febbraio ci trovammo nuovamente e feci io una proposta, che ritenevo corretta, equa, ma fu bocciata. Così fui costretto a “mettermi sul mercato”. Ecco, quella fu probabilmente la delusione più grande della mia carriera. Dopo quattordici anni di Lugano tutto era finito. Per me e per la mia famiglia fu un momento molto triste».
Dopo i bianconeri ci furono, per poco, Friborgo e Losanna. Poi il ritiro.
«Il passaggio da sportivo a ex non mi costò fatica. Questo perché oltre a giocare ho quasi sempre avuto un’occupazione. Ricordo per esempio a Bienne, da semiprofessionista, di volte in cui si rientrava magari alle 3 di notte dopo una trasferta e la mattina seguente alle 7.30 ero già al lavoro».
Freschissimo.
«Ecco, questo sì era un problema. Da sportivo, il mio corpo era abituato a essere performante la sera. Quindi la mattina ero improponibile, ma poi potevo tranquillamente lavorare fin dopo mezzanotte».
E a livello fisico?
«È stato un disastro. Ho “preso” 20 chili in sei anni. Ringrazierò sempre mia figlia che a un certo punto mi ha sgridato: da lì mi sono rimesso in riga».
Smesso di giocare sei rimasto nel mondo dell’hockey, sei rimasto in Ticino. Non sei però rimasto a Lugano.
«Chiuso con il Losanna, i miei obiettivi erano quelli di continuare con il mio sport e tornare a casa. Ma in Ticino, nell’hockey, dove vuoi andare? Prima di Natale ci fu un incontro con l’allora presidente Paolo Rossi, che nei mesi mi aveva mandato segnali di apertura, ma non saltò fuori nulla. Quando ero abbastanza disperato e rassegnato a organizzare un trasloco a Losanna, dove mi avevano offerto il posto di responsabile della sezione giovanile, ecco all’improvviso l’occasione. Per un caso fortuito mi incontrai a Losanna con Angelo Gianini, compianto presidente della Valascia immobiliare, per un torneo al quale partecipavano i nostri figli. Lì mi chiese se fossi interessato ad andare ad Ambrì. E tutto partì».
L’approdo in biancoblù non passò sottotraccia…
«Io non sentii negatività. C’era chi mi apprezzava e chi lo faceva meno, chi guardava quello che ero e quelli che si fermavano al colore della maglia. Quando qualcosa non andava bene, saltava fuori la storia che ero un ex-Lugano, è vero, ma non ci ho mai fatto troppo caso. Riguardo a quel periodo c’è un particolare che non è mai stato chiarito. Ancora oggi molti tifosi mi reputano infatti responsabile di anni di scelte di mercato, quando invece io feci delle trattative solo per un paio di stagioni. Vista la situazione difficile, Filippo Lombardi mi chiese di essere contemporaneamente direttore generale e direttore sportivo. Mi rimboccai le maniche e credo anche di essere riuscito ad allestire una squadra competitiva, che poi Pelletier portò nei playoff. Ma, insomma, è passato tanto tempo».
La parentesi leventinese si chiuse nel 2014 quando ci fu il rientro a Lugano.
«Fu una bella emozione. Soprattutto nel momento della firma, perché ricordo che prima di quella passai un mese in disoccupazione. E ricordo che all’ufficio di collocamento ero considerato un caso abbastanza complicato. La delusione di anni prima mi permise di gustarmi maggiormente il rientro a casa e mi ha spinto a dare ancora di più nella nuova occupazione».
Il Lugano e… Lugano. Dal 2021 l’avventura della politica.
«Nel club occupo un ruolo operativo, di responsabilità ma meno esposto rispetto a quello di chi sta sul ghiaccio. Questo non mi permette quindi di vivere le emozioni della squadra. La politica mi ha invece permesso di ritrovare un po’ di quell’adrenalina che mi ha accompagnato per anni. Prima di candidarmi, tre anni fa, la cosa pubblica mi interessava poco. E infatti quando mi hanno contattato non ho accettato subito di scendere in campo. Ho voluto pensarci bene. Mi sono informato, ho studiato e… la passione è venuta di conseguenza. Un vantaggio è stato - questo non lo dico io ma tutti quelli che ho incontrato sulla mia strada - l’essere altruista. Per come la vedo io: sono arrivato a Lugano nel ‘91 e sono stato accettato, accolto, adottato. Ho avuto tanto. Ora mi sento in dovere di “ridare” qualcosa. Senza troppe parole ma con impegno e concretezza, ho la speranza di prendere delle decisioni che possano aiutare a rendere migliore la vita delle persone. È un bell’impegno, non lo nascondo, però lo faccio con grande piacere».
Avere una mentalità da sportivo ti aiuta?
«Sì, certo. La campagna elettorale è un po’ come gli allenamenti. Richiede la stessa costanza e attenzione. Ti muovi, ti fai conoscere, spieghi le tue idee, provi a capire le dinamiche e… cresci. Giorno dopo giorno. Sono Consigliere comunale uscente, ho un compito da terminare: se gli elettori vorranno, con impegno e maggiore esperienza proverò a continuare a fare il bene della Città di Lugano».