Pilota figlio di piloti, Nicky Hayden - scomparso nel 2017 - è stato l'ultimo statunitense a vincere un Mondiale nella classe regina
Marco Melandri, a 21 anni dal debutto in MotoGP - nell'aprile 2003, proprio come Kentucky Kid - ricorda con noi il pilota a stelle e strisce: «Concreto e consistente, era la sua forza. È stato vittima di serie di circostanze sfortunatissime».
OWENSBORO - Sorridente, disponibile, anti-divo. Uno che amava stare anche lontano dai riflettori, tranne quando decideva di prenderseli in gara. Umile sì, ma non scordiamoci che ha riscritto una fetta di storia della MotoGP spezzando quella che, sin lì, era un’egemonia. Un ragazzotto venuto dal cuore degli Stati Uniti, diventato campione e scomparso prematuramente. Andate a leggere le dichiarazioni di chi ha vissuto il paddock tra il 2003 e il 2016 e vi sfidiamo a trovare qualcuno che ne parli male. C’è chi ha vinto di più ma non ha lasciato segni così tangibili. Lui invece, il nostro “Kentucky Kid”, l'ha fatto e si è fatto voler bene. Ha corso una vita a oltre trecento all’ora ed è diventato un Indimenticabile dello sport, se n’è andato dopo un "banale" incidente in bici nel 2017. Stiamo parlando di Nicky Hayden, pilota dall'animo gentile che nel 2006 detronizzò Valentino Rossi, sin lì padre-padrone della classe regina.
Passione innata
«Correre in moto è semplicemente uno stile di vita. È quello che so fare, è quello che ho sempre fatto. Lo fa la mia famiglia, lo fanno i miei amici: non è solo un lavoro, è una passione», parola dello stesso Nicky Hayden, nato a Owensboro, nel Kentucky, il 30 luglio 1981.
Pilota figlio di piloti, perché oltre al papà Earl - dal quale ha ereditato il numero 69 - anche la mamma correva in pista. Insieme ai fratelli Tommy e Roger Lee (che ha collezionato qualche gran premio in MotoGp e Superbike) è cresciuto nel mondo delle due ruote. Negli ovali in terra battuta del “flat track” ha imparato uno stile unico per affrontare le curve in derapata. Dopo i primi passi nei circuiti cross e l’avvicinamento alla pista, è arrivato alle derivate di serie. Nel 1999 diventa campione dell’AMA Supersport. Nel 2000 fa il suo esordio nell’AMA Superbike e, due anni dopo, ne diventa il più giovane campione della storia. Sempre nel 2002 vince la 200 miglia di Daytona e, a Laguna Seca, corre come wild-card con una Honda RC51 nel mondiale Superbike.
Il grande salto
Nel 2003 sbarca nel Motomondiale col Team Repsol Honda al fianco di Valentino Rossi («È veramente in gamba», si accorgerà subito il pesarese. Poi, col Dottore passato in Yamaha, farà un anno accanto ad Alex Barros e un altro vicino a Max Biaggi. Dopo qualche podio, nel 2005 firma il primo successo a Laguna Seca, davanti al suo pubblico. Quel Mondiale lo chiuderà al terzo posto dietro a Rossi e Melandri. Prime avvisaglie, primi segnali di quello che sarà.
Finale thrilling
Nel 2006 firma la stagione della vita, con 10 podi di cui 2 vittorie. È l'anno del titolo conquistato all’ultima gara, complice un folle finale tra Estoril (penultimo round dove perse la vetta) e Valencia, con l’errore di Rossi. Fortuna? Macché. Kentucky Kid era stato in testa praticamente tutto il mondiale, rischiando di perderlo nel modo peggiore. Con un incidente in Portogallo, dove Dani Pedrosa (suo compagno di squadra) lo trascinò a terra nella sabbia con uno sciagurato tentativo di sorpasso.
Nell’ultimo GP altro colpo di scena, col clamoroso scivolone dell'italiano (che aveva 8 punti di margine) e il definitivo contro-sorpasso. Un trionfo che ha interrotto la dittatura griffata Rossi in quel “nuovo mondo”, ovvero dopo il passaggio dalla 500 alla MotoGP (suoi i titoli dal 2002 al 2005).
Andata e ritorno, poi il dramma
In MotoGP è rimasto in pianta stabile fino al 2015, passando anche in Ducati (2009-2013) prima di tornare alla Honda. Acuti e soddisfazioni tra moto performanti e altre meno, ma non ha più raggiunto i picchi del passato. Ultime due apparizioni nel 2016 per sostituire Jack Miller, con la chiusura del cerchio il 23 ottobre a Phillip Island dopo 218 GP, 3 vittorie, 28 podi e 5 pole.
Da inizio 2016 era infatti tornato alle origini, leggasi derivate di serie. Si è tolto anche lo sfizio di riportare la bandiera americana sul gradino più alto del podio in Superbike, vincendo gara-2 con la Honda CBR1000RR sotto il diluvio in Malesia sotto il diluvio in Malesia. È stato il suo ultimo successo: chiuderà il mondiale al quinto posto. L’anno seguente altre dieci gare, poi la tragedia.
Qui la mente corre al 17 maggio 2017, quando Hayden - durante un giro in bici - è stato investito da un'auto sulla Riccione-Tavoleto, nei pressi di Misano Adriatico. Dopo 5 giorni in rianimazione si è spento all’età di 35 anni, lasciando la fidanzata Jacqueline Marin.
E a questo punto per un ricordo più ricco ci facciamo aiutare da un altro campione del motorsport, che nel 2003 ha vissuto il suo anno da rookie proprio come Hayden. L'esorido in aprile: esattamente 21 anni fa.
«Innanzitutto era un amico, eravamo praticamente coetanei e avevamo le stesse passioni, parlavamo spessissimo anche di bici e di motocross - interviene Marco Melandri, già campione del mondo della classe 250 - Nel 2003 abbiamo mosso insieme i primi passi in MotoGP, e nel 2005 ci siamo giocati il titolo di vicecampione fino all’ultima gara. Poi ci siamo "ritrovati"anche in Superbike».
Sempre disponibile con i fans, non si atteggiava da star.
«Per certi versi era un personaggio “anomalo”, l’ho sempre visto come il ragazzo della porta accanto. Molto calmo, posato, corretto con tutti. Aveva la sua routine e non amava apparire. In pista magari ci si scontrava, ma tolto il casco finiva lì. Ai box ci si poteva parlare e chiarire. Veniva da una famiglia unita, che viveva le gare e di gare. A vederli nel paddock sembravano i classici “camperisti”».
In tanti lo hanno descritto come un nobile “gregario”. Infaticabile. Uno che faceva andare la moto e dava sempre consigli sempre utili ai meccanici.
«Ci sono stati piloti più forti - penso ad esempio a uno come Stoner - ma Nicky era molto concreto e consistente. Se si correva al Mugello e sapeva di poter arrivare quarto, faceva quarto. Non si inventava numeri per poi finire a terra. Anche questa è una grande qualità. Era la sua forza. Ha meritato il Mondiale 2006, quasi sfumato per il crash di Pedrosa, e ha vissuto negli anni in cui si è tornati a correre in America, dove la MotoGP era poco considerata. Ha riaperto questo canale».
Il destino l’ha portato via.
«Ricordo bene quei giorni di maggio - ci racconta Melandri - Sono ripassato sul luogo dell’incidente proprio la scorsa settimana. Adesso lì c’è un monumento e hanno realizzato uno spazio in suo onore. Nicky è stato vittima di una serie di circostanze sfortunatissime. Arrivava da una piccola stradina che, dopo una serie di curve e tratti con poca visibilità, si immette in una statale. In pratica si è trovato in mezzo alla strada. Sono dell’idea che purtroppo abbiamo una “data di scadenza”. Quando ti tocca… ti tocca. È stato un campione e manca al mondo del motorsport».