Chiesti quattro anni e nove mesi di carcere per il 40enne che nel giugno del 2023 aggredì un suo amico e vicino di casa a Vezia.
LUGANO - «Non c'è stata nessuna legittima difesa. L'imputato ha accoltellato l'amico, colpendolo per ben tre volte alla schiena, senza ragione». È con queste parole che oggi, alle Assise criminali di Lugano, la procuratrice pubblica Valentina Tuoni ha chiesto di condannare il 40enne italiano che il 12 giugno 2023 a Vezia accoltellò un 46enne suo amico e vicino di casa.
La pubblica accusa ha chiesto che l'uomo venga ritenuto colpevole di due tentati omicidi intenzionali e ha spinto per una pena di quattro anni e nove mesi di detenzione, più l'espulsione dalla Svizzera. La difesa ha invece proposto un massimo di tre anni da scontare sotto forma di trattamento stazionario o, subordinatamente, in forma di trattamento ambulatoriale. La sentenza è attesa per le 16.30 odierne.
L'uomo, è emerso, presenta un ritardo mentale ed è affetto da disturbi psichici. La perizia psichiatrica ha ravvisato in lui una scemata imputabilità di grado lieve e un grave rischio di recidiva.
«Non so perché l'ho fatto» - «Non so dire perché ho colpito il mio amico», ha detto l'imputato in aula. «Quel giorno avevo avuto una discussione con la donna che frequentavo. Quando lei è andata via dal mio appartamento è arrivato lui, io ero nervoso e ho iniziato a rompere degli oggetti in casa. Lui per calmarmi mi ha preso per il collo per bloccarmi..sembrava aggressivo e io ho perso l'orientamento».
«Durante l'inchiesta lei però aveva dato varie versioni, dicendo anche che la vittima l'aveva minacciata di morte», ha osservato però il giudice Amos Pagnamenta. «Da quel poco che ricordo è andata così», ha replicato il 40enne.
«Lei sa che colpendo una persona alla schiena con un coltello la si può uccidere?», lo ha incalzato Pagnamenta. «Non l'avevo mai fatto quindi..ma sì». «Perché allora non ha chiamato i soccorsi?». «Ero in panico», si è giustificato.
«Non volevo farle del male» - Si è poi discusso della seconda aggressione, avvenuta qualche ora prima. Quello stesso giorno, tra le 18 e le 20, il 40enne ha infatti sequestrato la donna che frequentava nel suo appartamento, impedendole di uscire e puntandole un coltello alla gola. «Ero geloso. Pensavo che lei si vedesse con un mio amico», ha spiegato l'uomo, specificando che «sì, avevo appoggiato il coltello sul suo collo, ma non dalla parte affilata». «È l'ultima persona a cui avrei voluto fare del male. Volevo solo spaventarla e spingerla a dirmi la verità», ha aggiunto.
«L'amico voleva solo calmarlo» - A esprimersi è stata poi la pubblica accusa. «I fatti sono stati oggettivamente comprovati», ha esordito la procuratrice pubblica Valentina Tuoni. «La vittima ha cercato di calmare l'amico e ha lasciato la presa quando pensava di aver raggiunto l'obiettivo. In quel momento l'imputato l'ha accoltellato per ben tre volte alla schiena, lasciandolo al suo destino e scappando». Il 40enne «ha così insidiato l'integrità di due persone sull'arco di poche ore, utilizzando un carico di violenza sproporzionato». Allo stesso tempo, viene evidenziato, «occorre però tenere conto del suo ritardo mentale congenito, della turba psichica di cui è affetto e dell'importante stato di ebbrezza in cui versava».
L'avvocato Valentina Basic, rappresentante dell'accusatore privato, ha dal canto suo precisato che in seguito all'accaduto la vittima principale «ha sviluppato un disturbo post traumatico da stress ed è tuttora in terapia». Per questo è stato chiesto un risarcimento per torto morale pari a 10mila franchi, più la copertura delle spese legali.
«È cresciuto a pane e botte» - La parola è passata quindi alla difesa, che ha chiesto il proscioglimento dal reato di tentato omicidio e una condanna «al massimo per lesioni gravi tentate».
«Il carcere non è un luogo adatto per l'imputato», ha dichiarato l'avvocato Fabio Creazzo. «Occorre infatti lavorare sui suoi disturbi psichiatrici: senza le adeguate cure rimarrà un problema per la società».
La difesa ha quindi descritto la situazione di disagio sociale in cui viveva il 40enne. «Non ha certamente avuto una vita facile, e non per colpa sua. È cresciuto a pane e botte, vittima di un padre violento». Già da bambino «sono inoltre stati riscontrati in lui ritardi mentali e fisici», e a questo, con il passare degli anni «si sono aggiunti alcol e droghe come cocaina ed eroina».
«Bloccandolo l'ha indotto a un raptus» - Si parla poi della sera dei fatti. «Il 46enne era il miglior amico dell'imputato. Mai avrebbe voluto fargli del male, tantomeno ucciderlo. Va però ricordato che in quel momento l'uomo si trovava in uno stato di costernazione dovuto al litigio avuto in precedenza con la compagna e all'enorme quantità di alcol consumato. Era ubriaco, irritabile e ingestibile. L'amico era conscio di questo, eppure, per calmarlo, l'ha bloccato fisicamente, quando avrebbe invece dovuto chiamare la polizia. Agendo in quel modo ha generato nel 40enne un senso di soffocamento e smarrimento che l'ha portato a un raptus».
La vittima «non si è comunque mai trovata in un vero pericolo di vita e la degenza in ospedale è stata brevissima», ha dichiarato poi Creazzo.
Anche l'omissione di soccorso, per la difesa, non è data, perché «dopo l'accaduto l'imputato ha affermato di aver sentito un altro inquilino del palazzo chiamare la polizia». L'uomo «non si sentiva perciò di aver abbandonato l'amico».
«Rapporto patologico, ma voluto da entrambi» - Per quanto concerne invece il coltello puntato alla gola della compagna, Creazzo ha spiegato che «purtroppo queste dinamiche non erano nuove in quella relazione. Entrambi sapevano che non c'era una vera volontà di fare del male, né un vero pericolo». E anche l'ipotesi di reato di sequestro di persona non sarebbe credibile: «Si attesta infatti che tra i due c'era un rapporto di coppia patologico e problematico, da entrambi però voluto».
Riguardo infine alla possibile espulsione, l'avvocato rimarca che il 40enne «soffre di un deficit mentale e non dispone delle capacità per rifarsi una vita in un altro Paese. È nato e cresciuto in Svizzera e la sua vita gira tutta intorno ai suoi familiari».
Il dibattimento si è concluso con le parole dell'imputato: «Mi dispiace, non dovevo fare quello che ho fatto».