Jamileh Amini, fondatrice dell'Associazione Comunità Afghana in Ticino: «Quando si arriva qui ci si sente soli e abbandonati»
BELLINZONA - È l'altra prospettiva, l'osservatorio differente da dove si vedono le cose, le cose che in questo caso generano termini a pioggia ormai stranoti che finiscono sui giornali o dentro alle conversazioni da bar: emigrante, rifugiato, asilante, profugo, fuggiasco, espatriato. Chi indossa quei vocaboli, però, è il solo a poterne davvero attribuire un significato compiuto, conoscendone di quello status la durezza e mostrandone certe volte anche i segni.
Partire senza sapere quando comincerà il futuro: la testimonianza di Jamileh Amini - Jamileh Amini è una donna afghana di 30 anni che quando decise di lasciare il suo Paese era una adolescente: non sapeva, allora, quando sarebbe cominciato davvero il suo futuro ma era certa che da qualche parte lo avrebbe scovato. E così è stato. Oggi, dodici anni dopo essersi presentata alla frontiera svizzera, in Ticino fa la consulente giuridica (Diploma SUPSI in Cooperazione e sviluppo e certificato federale di interprete e mediatrice culturale) ed è stata artefice della nascita dell'Associazione Comunità Afghana in Ticino (ACAT).
«Ai miei connazionali dico sempre: se ce l'ho fatta io ce la potete fare anche voi - dice - perché il vero problema è il senso di isolamento che si prova quando si arriva e poi l'impossibilità di comunicare. I miei primi anni in Ticino - ricorda - sono stati difficilissimi, ci vuole molta forza e molto coraggio a lasciare tutto, le tue radici, la tua famiglia e partire. Solo che non è un viaggio calcolato, può durare un mese ma anche 3 anni e non si ha alcuna garanzia sulla sua riuscita».
Il mercato dell'immigrazione gestito da organizzazioni iraniane - Molti degli afghani che si presentano alle frontiere svizzere ticinesi - diventate le porte d'accesso preferite per entrare nel Paese - hanno pagato profumatamente il prezzo del biglietto per l'Europa, tra i 7 e i 10mila franchi.
Alcuni partono affidandosi a "corrieri" che li stipano a volte dentro dei tir che battono le rotte del deserto iraniano: rischiano di soffocare, non hanno nè da mangiare e nemmeno un pò d'acqua da bere e quando arrivano in Turchia, se scoperti, chi si è portato appresso la famiglia rischia di vedersi tolti i figli; è il senso umanitario da cui è mosso il presidente Erdogan per scoraggiare le partenze.
«Cosa li spinge a rischiare la vita? L'Afghanistan purtroppo non esiste più, è un Paese abbandonato, non funziona più nulla, non esiste l'economia, non esiste la cultura, si fugge da tutto questo niente e dalla mancanza di libertà. Gli esseri umani nascono liberi: anche i migranti vogliono esserlo. I ragazzi afghani che arrivano in Ticino - argomenta - hanno solo bisogno di essere accompagnati nel cammino che porta all'integrazione e all'inizio del loro futuro. Ma questo - aggiunge Jamileh - non vuol dire che bisogna dimenticare il popolo afghano, c'è bisogno che la comunità internazionale apra gli occhi in un modo considerato idoneo a questo Paese. L'aiuto umanitario - è convinta - non basta, è necessario rimettere l'Afghanistan sui tavoli delle diplomazie internazionali che contano e capire cosa si può fare».
Da persona che ha a cuore le sorti del suo Paese, esorta a non dimenticare che «l'emergenza non ha colore e non ha religione, siamo tutti responsabili di aiutare il prossimo ed essere un buon esempio per la nuova generazione. Noi come comunità, attraverso i nostri eventi, aiutiamo più che possiamo il popolo afghano: è come una goccia nell'oceano ma bisogna fare».
«Grazie alla comunità e alla collaborazione delle nostre volontarie e volontari locali ora si parla dell'Afghanistan e della cultura afghana» - Jamileh non fa mistero del fatto che «negli ultimi anni si parlava poco o niente dell'Afghanistan e della sua cultura, delle sue usanze. Poi grazie anche alla collaborazione di realtà locali siamo riusciti a venire alla luce, a farci conoscere meglio: abbiamo promosso degli eventi che sono serviti a fare capire di più chi siamo. Il popolo afghano è fatto di gente gentile e accogliente e questo i ticinesi l'hanno capito. Non mi risulta che nessun nostro connazionale sia rimasto coinvolto in episodi di violenza».
Il lavoro sul campo. Mario Amato (Soccorso operaio svizzero): «È azzardato dire che siamo in una situazione di emergenza» - In Ticino sono diverse le associazioni che si occupano di migranti, fra queste c'è SOS, Soccorso operaio svizzero. Il direttore Mario Amato smentisce seccamente i proclami allarmistici di alcune compagini politiche che parlano di vera e propria emergenza. «Oggettivamente la situazione non è questa - afferma - ed è azzardato dire che siamo in una situazione di caos come si è sentito nel corso dell'ultima campagna elettorale. Noi abbiamo avuto l'anno scorso 24mila e cinquecento domande d'asilo, non è un numero elevatissimo se pensiamo alle 41mila domande del 1991 o alle 47mila del 1999. Le difficoltà maggiori? Gestire i traumi di chi fa fatto viaggi disumani. Non dimentichiamo poi i molti casi dei minorenni non accompagnati che spesso subiscono abusi».
Per Amato il sistema della gestione dell'accoglienza funziona bene e a chi solleva delle riserve sull'espletamento delle pratiche di asilo dovuto anche alla priorità della questione ucraina che avrebbe rallentato la macchina organizzativa risponde: «La Segreteria di Stato della migrazione (SEM) si è dotata di personale per gestire la situazione - spiega - è vero che la SEM avrebbe bisogno di più personale in ragione del fatto che lo scorso anno le domande di asilo sono aumentate rispetto al 2021, ma non poteva assumere e questo per decisioni politiche. Ciò ha comportato che per alcuni richiedenti l'asilo la procedura sia durata un pò di più, ma la legge stabilisce una permanenza massima di 140 giorni nei centri federali di asilo e la legge stessa ammette che per giustificate ragioni si possa andare un pochino oltre». Proprio la condizione di "reclusione" prolungata è all'origine a volte di atteggiamenti insofferenti: molti riferiscono la sensazione di abbandono provata all'interno del centro. «Beh, la modalità più corretta per affrontare questo problema è una vicinanza maggiore della società civile rispetto ai profughi - è convinto Amato - più li coinvolgiamo in attività anche esterne, minore sarà il loro senso di inutilità».
Il lavoro dell'associazione DaRe e il ponte tra le persone - Di migrazione e di sostegno alle persone in difficoltà si occupa l'associazione DaRe. «La nostra missione? Quella di fare da ponte tra le persone, avvicinarle, farle entrare in comunione coinvolgendole in cose concrete: e lì ci si accorge che si è molto simili». Lara Robbiani Tognina, un attestato federale in Specialista della migrazione, è una di quelle in prima linea sul fronte dell'accoglienza, quella pratica e per nulla salottiera che anima i dibattiti della politica sul tema.
L'aiuto concreto: scarpe, vestiti e un kit per neonati - Con la sua associazione DaRe vive la vita dei migranti ogni giorno, comunica con loro «anche quando la lingua erige una barriera, perché basta un sorriso, un gesto, un abbraccio per capirsi. Da dieci anni mi occupo di immigrazione: nel nostro centro offriamo a queste persone vestiti, scarpe, accessori per la casa ma soprattutto una casa e una famiglia allargata. E uno dei nostri ultimi progetti prevede la fornitura di un kit per neonati: spesso dagli ospedali i bebè dei migranti escono con qualche paio di pannolini e niente di più».
Duecento le persone che regolarmente frequentano il centro DaRe - Duecento le persone che regolarmente entrano nella "casa di Lara", habitué cresciuti sempre di più nel tempo grazie al passaparola: «Ci sono persone che fanno la colletta per avere i soldi del biglietto del treno e poterci raggiungere. Oltre a cose materiali - aggiunge Tognina - offriamo loro momenti di formazione e di svago: a volte organizziamo delle cene alla cui preparazione, intendo proprio le pietanze, partecipano persone di differente nazionalità. Sa quante volte scoprono di avere molte cose in comune nel cimentarsi nella preparazione di un piatto? E lì trovano un punto di contatto: si chiama socializzazione, integrazione tra generazioni, religioni ed etnie. Il famoso ponte tra le persone che è alla base della nostra attività».
L'allarme migranti? «Una narrazione che fa comodo a tanti» - L'integrazione però non sempre riesce - lamentano parti dell'opinione pubblica - e accade che i fatti consegnino alle cronache episodi di violenza in cui ogni tanto sono coinvolti ospiti dei centri asilanti: per Tognini "l'allarme migranti" è «una narrazione che fa comodo a tanti. Capisco le paure, ho letto anche i dati che riguardano i reati ma la mia esperienza mi porta a dire che ci sono moltissime persone con voglia di fare e di integrarsi. I punti critici dentro ai centri asilanti e da cui può nascere il disagio - argomenta - sono il tempo, la noia, l'attesa di avere una risposta riguardo al proprio futuro, l'impossibilità di fare delle attività: se li coinvolgiamo e li facciamo sentire parte di qualcosa, questi fattori di rischio scompaiono».