L’epopea dei lavoratori italiani in Ticino: quarant’anni di accordi, firmati o mai raggiunti, tra Italia e Svizzera.
La prima volta che si iniziò a parlare di frontalieri e tassazione era il 1971. Sono trascorsi 47 anni da allora e la questione è diventato un problema che non sembra trovare soluzione. Tra discussioni, mediazioni, litigi, minacce, blocchi, incontri diplomatici e promesse non mantenute, tracciamo qui la lunga storia dell'imposta alla fonte.
Cos'è? - L’imposta alla fonte è una imposta diretta prelevata dai Cantoni che si applica ai redditi da lavoro dipendente di coloro che, non essendo cittadini svizzeri, svolgono una attività lavorativa temporanea in Svizzera, come ad esempio il lavoratore frontaliere con permesso G e il cittadino straniero residente in Svizzera con permesso B o L. L’imposta alla fonte comprende le imposte federali, cantonali e comunali ed è percepita, per i dipendenti, attraverso una trattenuta diretta da parte del datore di lavoro che la versa all’autorità fiscale cantonale. In Ticino questa materia è regolata dalla legge tributaria e relative norme di applicazione. I ricavi dell’imposizione alla fonte incassati centralmente dal Cantone vengono ridistribuiti tra i vari livelli istituzionali a seconda della tipologia di lavoro svolta.
Un fenomeno in crescita - Tra i soggetti a cui si applica l’imposta alla fonte ci sono i frontalieri, e cioè cittadini di uno stato che prestano lavoro in uno stato confinante. Volendo concentrarsi sul numero di frontalieri italiani che prestano attività lavorativa in Svizzera i dati riferiscono che erano 31.106 nel 2001, 39.039 nel 2006 e nel terzo trimestre del 2017 erano ben 65.184, con un incremento del 3,65% su base annua. I salari dei frontalieri italiani possono essere imposti unicamente in Svizzera e gli introiti vengono ripartiti tra Italia, la Confederazione, il Cantone e i Comuni di frontiera da cui i lavoratori provengono. Questo sulla base di una serie di accordi che nell’arco di oltre quarant’anni hanno regolato, e continuano a farlo, la questione del lavoro frontaliero italiano in Svizzera.
Evoluzione storica: dalla nascita del fenomeno dei frontalieri allo storico accordo del 1974
Il passaggio di merci e lavoro tra Italia e Svizzera, vista la loro vicinanza geografica, è sempre stata una costante. Il dislivello economico tra i due Stati confinanti ha da sempre incentivato i lavoratori italiani ad andare a cercare lavoro nel più ricco Paese elvetico. In Ticino il fenomeno ha subito un decisivo incremento tra gli anni ’60-70 con la parziale liberalizzazione delle frontiere, l’apertura dei trafori alpini e l’inaugurazione di moderne arterie autostradali ma soprattutto con l’industrializzazione del Cantone che ha reso necessario reperire manodopera “straniera” per far fronte al sempre maggior sviluppo economico. Ed è così che località del Nord come Sondrio, Novara, Varese e Como subiscono, in quegli anni, un aumento sbalorditivo della popolazione e si trovano, di contro, a dover risolvere all’improvviso problemi sociali quali la carenza di alloggi, scuole, fognature e acqua potabile. Nasce il fenomeno dei “frontalieri”: migliaia di persone, richiamate da amici e parenti che già hanno trovato occupazione al di là del confine, che si riversano nei 365 comuni italiani situati a 20 chilometri dal confine svizzero e che ogni giorno svalicano per prestare la propria attività lavorativa nel paese elvetico. Il fenomeno è talmente dirompente che necessita di una presa di posizione politica. Il primo ad organizzarsi in tal senso è Antonio Sanna, all’epoca neo eletto sindaco del comune di Lavena-Ponte Tresa paese che, per la sua vicinanza con il confine, aveva subito anch’esso un aumento della popolazione del 183%. Nel 1971 nasce la Conferenza permanente dei comuni italo-ticinesi e si inizia a parlare della possibilità di rimborsare ai comuni di residenza una parte della imposta alla fonte cui la Svizzera sottopone i lavoratori frontalieri italiani, per far sì che gli stessi possano far fronte al sempre crescente bisogno di infrastrutture.
L’accordo tra Italia e Svizzera sul tema dei frontalieri viene concluso il 3 ottobre del 1974, con effetto retroattivo al 1 gennaio dello stesso anno, ed è entrato in vigore il 27 marzo del 1979. L’accordo stabilisce, nel suo articolo 1, che i salari e gli stipendi che un lavoratore frontaliero percepisce per la sua attività dipendente sono imponibili soltanto nello Stato in cui questa attività è svolta. Di conseguenza i lavoratori residenti nei Comuni di frontiera (la cui distanza è fissata in 20 km in linea d’aria dal confine) che esercitano la propria professione in Svizzera sono soggetti al pagamento delle tasse solo in questo Paese.
A favore dell’Italia, a cui viene precluso qualsiasi diritto di tassazione, l’art. 2 dell’accordo, prevede che i cantoni dei Grigioni, del Ticino e del Vallese, nella cui giurisdizione lavorano i lavoratori frontalieri residenti in Italia, devono versare ogni anno a beneficio dei comuni italiani di confine, una parte del gettito fiscale proveniente dalla imposizione a livello federale, cantonale e comunale, della remunerazione dei frontalieri italiani, come compensazione delle spese sostenute dagli stessi a causa della presenza di frontalieri che risiedono nel loro territorio ma prestano lavoro in uno dei citati cantoni. In conseguenza dell’accordo la compensazione finanziaria a favore dell’Italia e a carico dei tre Cantoni citati è stata del 20% nel 1974, del 30% nel 1975 e del 40% negli anni successivi (poi ridotto a 38,8% in base ad un accordo amichevole del 1985).
PRIMI CONFLITTI TRA ITALIA E SVIZZERA
Tuttavia, fin da subito, la stipula di tale accordo ha dato vita ad una accesa conflittualità tra il canton Ticino e la Confederazione. La prima causa di dissapori è la retroattività con la quale si stabilisce che il Ticino deve restituire il 40% delle imposte prelevate sul reddito dei frontalieri italiani. L’accordo sui frontalieri infatti, come detto, è stato accettato dalle Camere federali nel 1979 con effetto retroattivo al 1 gennaio 1974, contro il parere della delegazione ticinese. Di fatto, tale retroattività è costata al solo Ticino circa 40 milioni di franchi versati alle casse dei comuni italiani. Inoltre l’accordo con l’Italia del 1974 non prevede la reciprocità del ristorno, per cui diversi comuni ticinesi non beneficiano di alcun ristorno sulle imposte dei lavoratori svizzeri che prestano lavoro in Italia. Il mancato riconoscimento della reciprocità comporta un pregiudizio per i comuni ticinesi nella cui giurisdizione sono residenti i lavoratori che prestano servizio nella fascia di frontiera italiana: tali comuni infatti sostengono i costi delle infrastrutture concernenti i residenti senza aver diritto né alle imposte comunali né al ristorno da parte dell’Italia.
IL MALCONTENTO TICINESE
In Ticino ci si interroga fin da subito se, a fronte del vantaggio reale che la manodopera frontaliera apporta in tutta la Svizzera, debba essere il solo Ticino a sborsare consistenti oneri per tale forza lavoro. Tali argomentazioni, portate avanti dai deputati ticinesi, furono respinte, prima dal Consiglio degli Stati il 20 marzo del 1980 e poi dal Consiglio nazionale il 9 giugno dello stesso anno. Già nel 1989, dopo appena una decina di anni dall’entrata in vigore dell’accordo, si stimava che, su una sessantina di milioni all’anno procurati dalla imposta alla fonte circa 25 milioni sono stati versati dal Ticino alla Tesoreria centrale italiana su un conto intestato al Ministero del tesoro e denonimato ‘Compensazioni finanziarie per l’imposta operata in Svizzera sulle remunerazioni dei frontalieri italiani’. Fin da subito quindi, dal fronte ticinese, non sono mancati i motivi per criticare un accordo che, ai più, non sembrava equo. Con il passare del tempo poi sono stati diversi gli incontri condotti con gli esponenti politici italiani per vagliare la possibilità di una modifica, se non dell’abolizione, dell’accordo stesso.
Con il passare del tempo la realtà economica e sociale, non solo dell’Italia e della Svizzera, ma di tutta l’Europa è cambiata. Lo stesso concetto di ‘frontaliero’ risulta vetusto a fronte di un accordo firmato dal Paese elvetico con l’Unione europea per la libera circolazione dei propri cittadini. I cittadini europei, e dunque italiani, che rientrano almeno una volta a settimana al loro domicilio in Italia, possono esercitare liberamente qualsiasi attività in Svizzera. Inoltre la legge tributaria del 2003 ha abrogato il divieto di doppia imposizione fiscale a favore dei cittadini italiani che prestano la propria attività lavorativa in Svizzera. Anche l’Italia quindi dispone di una base legale per imporre i redditi di questi lavoratori. Viene quindi avvertito come urgente e improcrastinabile una modifica di quanto stabilito nello storico accordo del 1974, sentito come sempre più discriminatorio per l’economia ticinese.
Il 13 dicembre 2010 Fabio Regazzi, Paolo Beltraminelli e Giovanni Jelmini, a nome del gruppo PPD, decidono di presentare una iniziativa cantonale da sottoporre all’Assemblea federale per invitare la Confederazione a voler rinnegoziare l’Accordo sui frontalieri del 1974. In particolare si chiede di voler riattivare le trattative con l’Italia per correggere l’assenza di reciprocità, attenuare l’ammontare del ristorno a carico del Ticino, Grigioni e Vallese e porre fine alle misure di ritorsione applicate alla Svizzera in quanto inclusa nelle liste nere. Il Governo Berlusconi e il Ministro dell’economia Tremonti sono però disinteressati all’argomento.
Si arriva così a giocarsi il tutto e per tutto con una decisione provocatoria capeggiata dal tridente Beltraminelli, Borradori-Gobbi: il 30 giugno del 2011 il Consiglio di Stato ticinese, riuniti in seduta straordinaria, decide di congelare il versamento all’Italia della metà dei ristorni sulle imposte dei frontalieri ammontanti a circa 28, 4 milioni di franchi. Due ore di seduta straordinaria per arrivare ad una decisione congiunta: la metà dei ristorni delle imposte alla fonte dei frontalieri italiani viene congelata su un conto vincolato presso la Banca dello Stato e il versamento sarà effettuato solo quando dal Governo italiano giungerà notizia della volontà di trattare sul rinnovo dell’accordo di doppia imposizione con la Svizzera. Due i punti fondamentali da trattare: la stipulazione di un accordo sulla fiscalità basato sul principio dello scambio di informazioni secondo gli standard dell’OCSE e l’accoglimento del principio di reciprocità e la riduzione del ristorno nell’ambito dell’accordo.
NORMAN GOBBI INCONTRA BOSSI E MARONI
Il 4 luglio dello stesso anno avverrà un incontro a Varese tra gli allora ministri Bossi e Maroni e il consigliere di Stato Norman Gobbi per discutere dei ristorni dell’imposta alla fonte ma né questo né gli altri incontri successivi approderanno a nessun risultato. Il 16 novembre Svizzera e Italia abbozzano una nota congiunta per aprire le trattative sulla revisione degli accordi. La vicenda sembra vicina ad una soluzione e il Consiglio di Stato valuta lo sblocco dei ristorni. Di fatto però si arriva, per l’ennesima volta, ad un nulla di fatto e il conto rimane congelato.
IL TENTATIVO MONTI E LA MEDIAZIONE
Il 1 maggio del 2012 il presidente del Consiglio italiano Mario Monti dichiara la volontà di aprire il tavolo delle trattative subordinando però queste al ripristino dell’applicazione del trattato dei frontalieri sospeso unilateralmente dal Canton Ticino.
Secondo il premier italiano “La decisione del Canton Ticino viola due accordi internazionali sui lavoratori frontalieri e quello successivo sulla doppia imposizione”. A fronte della dichiarazione di volontà di riprendere le trattative vengono sbloccati la metà dei ristorni congelati. La decisione, spiega il Governo in una nota ufficiale, si inserisce nella logica dei negoziati incorso tra Svizzera e Italia per trovare un accordo in ambito finanziario e fiscale, con particolare attenzione alla regolarizzazione dei capitali detenuti in Svizzera da contribuenti italiani non residenti, lo stralcio della Svizzera dalle liste nere dei paesi con i quali le transazioni sono a rischio, e l’accordo sull’imposizione dei frontalieri.
Nel maggio del 2012 riprendono le difficili trattative Svizzera e Italia con l’incontro a Palazzo Chigi tra Mario Monti e Eveline Widmer-Schlumpf e, cosa rilevante, l'allora consigliera di stato ticinese Laura Sadis, riconoscimento del forte coinvolgimento del Canton Ticino ai temi trattati. Sul tavolo dei negoziati tra Roma e Berna ci sono i tre temi spinosi che da anni sono in cerca di una chiara regolamentazione:
Le trattative rimangono sospese e sono rallentate dal succedersi dei diversi governi italiani: Berlusconi, Renzi, Monti, Letta. Di fatto ciò che appare evidente è che all’urgenza di riforma avvertita in Svizzera, e in special modo in Ticino per il suo particolare coinvolgimento con la realtà dei frontalieri, l’Italia sembra non avere fretta di voler mettere mano ad un accordo che gli si è rivelato così conveniente per oltre trent’anni. Inoltre il governo italiano non ha più bisogno della Confederazione per raggiungere ciò a cui è più interessato e cioè i capitali nascosti in Svizzera dei propri cittadini. Il decreto del governo sulla ‘voluntary disclosure’, le dichiarazioni spontanee dei contribuenti e la legge elvetica che vieta alle banche di gestire fondi frutto di frode fiscale, di fatto pongono fine del segreto svizzero sui capitoli italiani. La paura del governo italiano è che il Canton Ticino, con il declino delle banche, cerchi di riciclarsi come paradiso fiscale delle imprese capace di attrarre una larga fetta del tessuto produttivo lombardo. Una politica di aliquote basse in Ticino potrebbe avere un effetto dirompente e al Ministro dell’Economia di Roma non basta la promessa di Berna di invitare i Cantoni a non lanciarsi nella concorrenza fiscale. Infatti, lungamente trascinate per anni, le trattative sembrano definitivamente arenarsi nel gennaio del 2014. Atteso a Berna in occasione del Forum del dialogo tra la Svizzera e l’Italia e la firma dell’accordo complessivo tra i due Paesi, Enrico Letta si fa sostituire da Fabrizio Saccomanni e, ancora una volta, non si giunge ad alcun accordo.
Il 5 giugno dello stesso anno, durante un incontro con la deputazione ticinese a Berna, Eveline Widmer-Schlumpf si impegna a concludere i negoziati fiscali entro la primavera del 2015, minacciando provvedimenti unilaterali nel caso il Governo italiano non rispettasse questa scadenza. Il tema dell’incontro con l’Italia è al centro di un incontro, a fine agosto, tra l’Esecutivo e la ministra delle finanze: la firma dell’accordo latita e la richiesta del Gran Consiglio di richiedere ai frontalieri che intendono lavorare in Ticino il proprio casellario giudiziale non va proprio giù al Governo italiano che ci legge una violazione dell’accordo di libera circolazione delle persone. A buttare benzina sul fuoco ci sono poi le dichiarazioni del presidente del Governo Norman Gobbi, sulla Neue Zürcher Zeitung, a cui tale trattative non piacciono per niente e che vorrebbe celebrare un funerale anticipato ai negoziati sull’imposizione dei frontalieri affermando che: “L’Italia non è la Germania o la Francia, bisogna capire la furbizia e l’abilità degli italiani. Purtroppo abbiamo fatto troppe concessioni senza chiedere adeguate contropartite. L’atteggiamento è stato ingenuo e ora l’Italia detta le condizioni e fa i capricci”. Affermazioni forti ma che di fatto vengono condivise da quasi tutte le forze politiche ad esclusione del partito socialista.
Dopo una fase di stallo il 22 dicembre del 2015 i responsabili delle finanze di Svizzera e Italia firmano il nuovo accordo fiscale fra i due Paesi che rivede il sistema di imposizione dei frontalieri. L’accordo prevede diverse novità: introduce il principio di reciprocità, fornisce una chiara definizione delle aree di frontiera, vengono in esso definitivi come frontalieri coloro che abitano a 20 chilometri dal confine e che, in via di principio, ritornano quotidianamente al proprio domicilio. Inoltre si stabilisce l’assoggettamento alla fonte in Svizzera dei frontalieri residenti in Italia con limitazione d’imposta al 70%; è inoltre prevista l’abolizione della tassazione esclusiva in Svizzera con il ristorno del 38,8% del gettito ai Comuni italiani nella fascia di confine. Sarà garantito uno scambio di informazioni sui redditi in formato elettronico e l’accordo dovrà essere sottoposto ad esame ogni 5 anni. Il Governo centrale, dopo mesi di pressione sul Ticino, ha convinto quest’ultimo a rinunciare alla richiesta di casellario giudiziario, visto come un ostacolo alla conclusione delle trattative. Lunghi anni di trattative, incontri, tentativi di mediazioni e storici bracci di ferro ma di fatto, ad oggi, l’accordo parafato nel dicembre del 2015 non è stato ancora firmato dal Governo italiano né ratificato dal Parlamento. E la storia, infinita, continua.
Intanto il dibattito continua a livello politico. Il 15 giugno del 2018 il Consiglio di Stato decide di non effettuare il blocco dei ristorni come aveva optato il ministro Claudio Zali e appoggiato da Norman Gobbi. Il governo sceglie la linea morbida e autorizza il versamento all’Italia della quota di imposte alla fonte sul reddito 2017 dei lavoratori frontalieri, secondo l’accordo italo svizzero del 1974, avviando nel contempo alcune trattative transfrontaliere con le Regioni Lombardia e Piemonte, per la stesura di un piano di interventi congiunto («roadmap») nei settori infrastrutture, ambiente e mobilità.
L'intenzione del Consiglio di Stato è di concordare con il Consiglio federale un piano di azione per favorire l’entrata in vigore del nuovo accordo fiscale tra Svizzera e Italia, superando così l’attuale accordo del 1974, e raggiungere in tempi brevi una soluzione per approvare la versione dell’accordo parafata il 22 dicembre 2015, o una sua variante che risulti in linea con le esigenze del nostro Cantone.
In situazione di «stallo permanente», il 27 novembre 2018 una nuova interpellanza - questa volta firmata dal consigliere nazionale leghista Lorenzo Quadri - chiede al Consiglio federale di considerare una denuncia della Convenzione del 1974 sui ristorni (come annunciato nel 2014 dall’ex consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf) e di fare chiarezza sull’appoggio al Governo ticinese qualora quest’ultimo decidesse di interrompere il versamento.
IL VIA LIBERA DEL PARLAMENTO
Nel dicembre del 2021 (il Consiglio degli Stati) e nel marzo 2022 (il Consiglio nazionale), il Parlamento nazionale ha approvato l'accordo tra la Svizzera e l'Italia sull'imposizione dei frontalieri. Una proposta di sospensione dell'intesa presentata da Piero Marchesi (UDC/TI) è stata invece respinta. Marchesi chiedeva la sospensione del dossier finché la Svizzera non sarà stralciata da una lista nera italiana e Roma non faccia passi concreti sull'apertura del proprio mercato finanziario agli operatori svizzeri. Ma per la maggioranza dei deputati, l'accordo è vantaggioso per la Svizzera, e in particolare per il Ticino, e una sospensione non farebbe che irrigidire la posizione dell'Italia.