Come si può convivere con un tumore, anche se si trova in stadio avanzato? La struggente storia della famiglia di Monica Paglia, morta a soli 15 anni. E le voci di alcuni specialisti.
BELLINZONA – Diciottomila: è il numero di persone che mediamente muoiono ogni anno in Svizzera a causa di un tumore. Duemilacinquecento: è la cifra relativa ai pazienti che si sottopongono a cure palliative in Ticino. Numeri che fanno riflettere. Così come fa rabbrividire quella maledetta parola. Cancro. Cosa fare quando i dottori ti fanno capire che non c’è più niente da fare? È davvero così? E come si può convivere con un tumore, anche quando si trova in stadio avanzato? Tio/ 20 Minuti, grazie alla collaborazione di alcuni specialisti, ha fatto un lungo viaggio dietro le quinte di un mondo fatto di tormenti, ma anche di speranza. Partendo dalla storia di Monica Paglia, 15enne di Bellinzona, morta lo scorso 13 marzo in seguito al degenerarsi di un tumore alle ossa che le era stato diagnosticato nel 2016.
Storia di una piccola lottatrice – «Ci facciamo forza, pensando alla grinta che aveva Monica». Così Christian Paglia, noto municipale bellinzonese, ricorda sua figlia, recentemente deceduta. Monica, pochi mesi prima di morire, era pure apparsa in televisione. E la notizia della sua scomparsa è stata ampiamente diffusa sui social network. «Perché abbiamo deciso di parlarne pubblicamente? Per lanciare il messaggio di Monica, una lottatrice. La speranza ci deve sempre essere, anche quando i medici ti fanno credere che è finita».
Quelle strane guarigioni – La storia di Monica è purtroppo terminata con la sua morte. Eppure, ogni tanto si sente parlare di “guarigioni miracolose”. Di situazioni in cui il tumore si ferma. Inspiegabili per la scienza. «Si tratta di casi rari – precisa Franco Cavalli, oncologo ticinese di fama internazionale –. Ci sono situazioni di regressioni spontanee per ragioni che ancora non comprendiamo. Ne parla anche la letteratura. In alcune circostanze, addirittura, accade che un’influenza o una malattia virale abbiano un influsso particolare sull’organismo umano tale che il sistema immunitario inizia a reagire al tumore. Ecco perché la speranza deve sempre esserci».
Una piaga che si allarga – Le cifre, però, non mentono. Nel mondo un uomo su cinque e una donna su sei svilupperanno un tumore nel corso della loro vita. Nel 2018 ci sono stati 18 milioni di nuovi casi e oltre 9 milioni di morti. Il peso dei tumori sulla popolazione è in lenta, ma evidente crescita. A sostenerlo è l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, legata all’Organizzazione mondiale della sanità. Tra i tipi di tumori più diffusi, quelli al polmone, al colon retto e al seno. I dati, generati dal sistema Globocan che monitorizza 185 Paesi, ipotizzano un incremento di quattro milioni di casi e di 1,4 milioni di morti rispetto al 2012.
La Svizzera sta “bene” – Che peso dobbiamo dare a queste statistiche? Cavalli ci va cauto. «In nazioni come la Svizzera non c’è più un vero e proprio aumento. La situazione è abbastanza stabile, ormai da anni. Ed è proporzionale alla crescita dell’aspettativa di vita. D’altra parte sono sempre di più le persone che riescono a convivere col tumore. Non guariscono, ma lo tengono sotto controllo».
Una questione di qualità – Cavalli, inoltre, cita il caso dell’ex presidente francese François Mitterrand. «Gli avevano diagnosticato un tumore alle ossa poco dopo la sua elezione. Eppure, in seguito, ha governato il Paese per 14 anni. E ne ha vissuti ancora altri. Il concetto di qualità di vita è essenziale. Il paziente dal momento in cui inizia un percorso di cura, anche in una fase delicata, deve rendersi conto che il suo obiettivo deve essere quello. Non per forza la guarigione effettiva».
Le cure palliative – «La parola guarigione deve sempre aprire una discussione col paziente – afferma con convinzione Claudia Gamondi, primario della Clinica di Cure Palliative e di Supporto dell’Ente Ospedaliero Cantonale (EOC) –. Il nostro supporto è modulato sui bisogni del paziente ed è mirato a permettere una certa convivenza con il tumore e con le sue conseguenze. Il problema è che la parola “palliativo” ha un significato distorto. Sembra quasi che chi accede alle cure palliative sia per forza senza speranza».
Non è l’anticamera della morte – E allora la specialista cerca di fare un po’ di ordine. «In Ticino sono curati, complessivamente, circa 2.500 pazienti con tumore all’anno nei vari setting di cure palliative, di cui circa 1.700 presso l’EOC. Dimentichiamoci il vecchio modello in cui prima c’era la chemioterapia fino alla disillusione, e poi arrivavano le cure palliative che erano percepite come l’anticamera della morte».
Un termine che va chiarito – Ora si lavora in un’ottica integrata. E il termine “palliativo” è visto semplicemente come un’opportunità di migliorare la qualità di vita del paziente. «C’è una parte di patologie che non è guaribile, ma che è sempre curabile, i cui sintomi possono essere tenuti sotto controllo, attraverso trattamenti mirati. La chemioterapia può essere un mezzo, cosi come abbiamo a disposizione numerosi altri trattamenti. Consideriamo anche i bisogni sociali, psicologici ed esistenziali dei pazienti e dei famigliari».
La forza della volontà – Gamondi si dimostra molto attenta alle terminologie. «Dire a un paziente che non c’è più niente da fare è un errore. Magari non c’è più una terapia capace di contenere il tumore. Questo non significa automaticamente dichiarare la morte del paziente. Qualcosa da fare c’è sempre. Nei casi critici, va declinato il termine “speranza”. E ne vanno concordati i significati. Un paziente ad esempio può sperare di essere curato a casa, se non vuole essere curato in ospedale. C’è chi ci dice che spera in un miracolo. Noi spieghiamo che i miracoli non dipendono dalla medicina. Di certo, la forza di volontà del paziente è decisiva nel cercare di reagire a una situazione critica».
L’illusione – A Monica Paglia, che non sarebbe più guarita, l’avevano detto nella primavera del 2018, a Zurigo. «Dopo un primo intervento nel 2016 – riprende papà Christian –, sembrava che mia figlia fosse sulla via della guarigione e che quel tremendo osteosarcoma se ne fosse andato». Invece no. Il tumore torna. Più forte e più violento di prima. E si espande, ai polmoni, alla testa. Metastasi ovunque. «In seguito a un ricovero d’urgenza a Zurigo, ci dissero che il tumore era troppo esteso. E che non c’erano sistemi per fermarlo».
Lotta contro il tempo – Ma la famiglia Paglia non demorde. Le prova tutte. Papà Christian e mamma Barbara si documentano. Vanno a caccia di nuove soluzioni. «Ho contattato anche i responsabili di alcuni studi sperimentali negli Stati Uniti – ricorda il municipale bellinzonese –, in collaborazione con l’oncologo pediatrico di Bellinzona. Ma ci rispondevano che gli eventuali effetti collaterali erano troppo difficili da gestire. E che Monica, con le sue caratteristiche, e con quelle del suo tumore, non rientrava nei parametri degli esperimenti in corso. E, dunque, non se la sentivano di provare».
Un percorso lastricato di sofferenza – Monica fino allo scorso autunno si sottopone a sedute di chemioterapia. Poi dice basta. La sofferenza è troppa. Il corpo della giovane era devastato dal bombardamento, ormai inutile, dei raggi. «Ci siamo rimessi a cercare altro. Con determinazione. Magari qualche farmaco da assumere oralmente. L’obiettivo era quello di temporeggiare, di trovare qualche sistema per tenere a bada il tumore. Per non farlo crescere ulteriormente. Speravamo che nel frattempo, poi, coi progressi della scienza, sarebbe subentrato qualche rimedio».
Basta torture – Monica, in mezzo a quel terremoto che stava stravolgendo la sua esistenza, ha costantemente cercato una vita normale, nel limite delle sue possibilità. «Già aveva rinunciato a troppo. I primi 9 mesi dopo la scoperta del tumore li aveva trascorsi sul divano. Una tortura per una ragazza dinamica come lei. Sì, Monica aveva tanta voglia di normalità».
La vacanza ad Abano – Anche per questo, la famiglia Paglia agli inizi di marzo decide di prendersi qualche giorno di relax ad Abano Terme. «C’eravamo tutti. Io, mia moglie Barbara, la nostra seconda figlia Vanessa. Monica ne era felice. Ha avuto una leggera crisi respiratoria il primo giorno, ma l’allarme è subito rientrato».
L’ultima sera – Sono giorni spensierati, quelli ad Abano per Monica e per la sua famiglia. Fino all’ultima sera. Quella di venerdì 8 marzo. «Eravamo nella stanza d’albergo. Le è subentrata una nuova crisi respiratoria. Stavolta più violenta rispetto alla precedente. Monica va in arresto cardiaco». Immediato il ricovero all’ospedale di Pavia. In seguito, la 15enne sarà trasportata in elicottero a Bellinzona e verrà ricoverata nel reparto di cure intense. «Lì, e solo lì, abbiamo realizzato che Monica ci avrebbe abbandonati».
Ogni giorno è prezioso – Monica se ne andrà mercoledì 13 marzo. Lasciando un vuoto enorme tra i suoi famigliari e tra i suoi amici. Ma anche lasciando una preziosa eredità a tutti quelli che l’hanno conosciuta. «Bisogna sempre crederci. Anche quando sembra tutto finito. Ogni giorno è prezioso. Monica aveva di fronte una montagna. E l’ha sempre scalata senza piangersi addosso».
Un messaggio forte – Christian Paglia ripensa agli ultimi due anni e mezzo. Al calvario di sua figlia. E non può fare altro che essere orgoglioso di quanto Monica gli abbia trasmesso. «A volte ci sono momenti terribili per noi famigliari. Abbiamo ancora in casa le sue cose. Vediamo il giardino vuoto, senza di lei. Spesso in questi anni abbiamo vissuto sentimenti di impotenza. Ed era lei a farci coraggio, paradossalmente. Ci rincuoriamo quando pensiamo alla sua grinta. Alla sua voglia di combattere».
Celebrare la vita – Alba Masullo, direttrice della Lega Ticinese contro il Cancro, applaude in silenzio il coraggio di Monica. «Si può celebrare la vita fino all’ultimo. Noi seguiamo, gratuitamente, circa 1200 pazienti all’anno. Un migliaio con assistenti sociali, circa 200 tramite le infermiere che coordinano la riabilitazione. Il nostro intento è quello di portare un caldo abbraccio alle persone. E un sostegno concreto».
Un team affiatato – Di regola sono i pazienti, o le rispettive famiglie, che decidono di rivolgersi alla Lega Ticinese contro il Cancro, sodalizio che esiste ormai dal lontano 1936. «Noi per questioni di privacy non possiamo contattare per primi i malati. Non sappiamo neanche chi è ammalato. Però siamo a disposizione di tutti. Grazie ai nostri 20 professionisti e ai nostri 110 volontari».
Un aiuto anche per la burocrazia – Da una parte per ascoltare il paziente. Dall’altra per aiutarlo nella vita quotidiana. «Quando ti dicono che hai un tumore, spesso inizi a non aprire più le lettere che ti arrivano a casa, a non pagare più le fatture. Ti demoralizzi. Noi vogliamo aiutare chi si ammala a riprendere in mano il filo della propria vita. Per questo li seguiamo anche dal profilo burocratico».
Riflessioni sul futuro – La Lega Ticinese contro il Cancro è molto attiva anche nell’offerta di attività riabilitative di gruppo (sportive, creative e ricreative). «Offriamo anche incontri di logoteoria e narrazione, corsi in cui si affrontano domande esistenziali. Cosa mi sta capitando? Quale è il senso di tutto questo? Quale sarà il mio futuro? Come lo affronto? Cambiano le prospettive. Ed è bello potersi confrontare con altre persone nella stessa situazione».
Giusto e sbagliato – Parola d’ordine, anche in questo caso: speranza. «Seguiamo una paziente che è molto malata. Si sta curando e vuole continuare a lavorare un giorno a settimana. Perché questo le dà un senso di normalità. Ma anche le persone che hanno un atteggiamento più introverso nei confronti della malattia meritano rispetto. Non esiste il giusto e lo sbagliato. Ogni persona ha le proprie caratteristiche. È chiaro che se si tiene accesa la speranza ti sembra di avere in mano tu le regole del gioco»
Il viale del tramonto – Ma, al di là di tutto, c’è anche chi, a un certo punto, si deve davvero confrontare con l’eventualità della propria morte. «Comunicare malamente a un paziente che è rimasto poco tempo da vivere è pericoloso – fa notare Gamondi –. Perché ci si può sbagliare e a seconda delle malattie e della persona, il percorso del “morire” può essere lungo e faticoso. In alcuni momenti critici della malattia, si può comunicare al paziente e ai famigliari, che la vita è in pericolo e che si è di fronte alla possibilità che il paziente possa morire. Quando poi si è compreso che il processo del morire è iniziato in maniera irreversibile è meglio essere espliciti e spiegare cosa sta accadendo. Ma senza turbare chi abbiamo di fronte. Non è importante solo cosa si dice, ma soprattutto come lo si dice».
Il medico controcorrente – Anche Werner Nussbaumer, medico di Gravesano, capace di finire in carcere anni fa per la sua battaglia in favore della canapa e delle erbe curative, è uno che ci vuole credere fino in fondo e che col paziente cerca sempre di avere un rapporto di massima trasparenza. «Non deve esistere che a un paziente non si diano più speranze. Io, con la medicina alternativa, ho visto cose incredibili. Sorprendenti».
La natura come alternativa – Nussbaumer ai malati di tumore prescrive cure naturali a base di funghi, canapa e artemisia. «Sostanze che rinvigoriscono e migliorano il sistema immunitario. E che danno, dunque, la forza all’organismo per distruggere le cellule cancerogene. Ottengo buoni risultati. Anche se coi pazienti sono sempre chiaro. Io non sono un mago. E di garanzie non ne posso dare. Non faccio promesse. Anche perché, contrariamente agli oncologi, non sono tenuto a seguire determinati protocolli. Di conseguenza, in caso di fallimento del trattamento non sarei nemmeno coperto giuridicamente».
Un baratro evidente – Le teorie di Nussbaumer, e di altri medici alternativi, evidenziano il baratro che c’è tra la medicina ufficiale e l’“altra” medicina. Un gap, forse, eccessivo. «Non c’è tanta collaborazione purtroppo. È un vero peccato. E così mi capita di ricevere pazienti che hanno provato di tutto con la medicina tradizionale. E che mi arrivano in studio inebetiti, privi di forze, sfiniti da chemioterapia e morfina. A quel punto, per me inizia una grossa sfida. Il mio primo obiettivo è cercare di ridargli un po’ di energia».
Fumo e alcol sono letali – Il medico di Gravesano è comunque altrettanto esplicito coi pazienti. «Molte volte, se uno arriva da me con un tumore, è perché ha condotto uno stile di vita sbagliato. Fumando, bevendo alcol, mangiando troppa carne, magari grigliata. Io posso dare qualche speranza ai pazienti. Ma se i pazienti non accettano di cambiare stile di vita, ogni sforzo sarà vano».
I progressi della scienza – Stile di vita che, se malsano, da sempre, è una delle cause che può portare a contrarre un tumore. «La scienza – sottolinea Cavalli – ha sempre saputo che il nostro corpo avrebbe le risorse intrinseche per difendersi da un tumore. Purtroppo, però, i tumori producono sostanze che sono in grado di paralizzare i nostri sistemi di difesa. La scienza sta lavorando molto su questo. Analizzando anche lo stile di vita dei pazienti malati di tumore. Si stanno ottenendo risultati importanti».