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INTERVISTALa vita "normale" di un ticinese a Baghdad

17.10.13 - 10:07
"Abbiamo placche di metallo alle finestre contro le esplosioni" - ci racconta Pablo Percelsi, da due anni nella capitale irachena, - " ma si riesce comunque a uscire ogni tanto, ad andare in qualche ristorante. Baghdad resta nonostante tutto una città che ha molto carisma, molto charme".
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La vita "normale" di un ticinese a Baghdad
"Abbiamo placche di metallo alle finestre contro le esplosioni" - ci racconta Pablo Percelsi, da due anni nella capitale irachena, - " ma si riesce comunque a uscire ogni tanto, ad andare in qualche ristorante. Baghdad resta nonostante tutto una città che ha molto carisma, molto charme".

Solo dall’inizio di ottobre, almeno 520 civili hanno perso la vita in attentati a Baghdad e nelle altre città dell’Iraq. Una realtà di sicurezza estremamente precaria, quella del Paese mediorientale, nella quale il ticinese Pablo Percelsi vive da due anni. Cresciuto a Chiasso, Pablo ha iniziato giovanissimo, a soli 25 anni, a collaborare con la Croce rossa ed è stato nelle aree di conflitto più calde del mondo. In Iraq, è vice direttore di missione e ci racconta la quotidianità di chi lavora in un Paese che non conosce pace, fra impegno per migliorare le condizioni della popolazione, preoccupazioni per la sicurezza, uscite serali in una città affascinante e visite ai siti storici nei quali nacque la nostra civiltà.

Partito da Chiasso, quale percorso di vita l’ha portata a diventare vice direttore della missione della Croce rossa in Iraq?
"Ho fatto il percorso classico del Mendrisiotto: scuole a Chiasso e liceo a Mendrisio. Poi ho studiato scienze politiche a Losanna e, finita l’università, ho fatto un anno di stage al quartier generale della Croce rossa a Ginevra. Fra i miei interessi professionali c’era proprio quello di lavorare in un’organizzazione internazionale e Ginevra ne offre a bizzeffe".

E dopo Ginevra?
"Dopo un anno a Ginevra sono passato alle missioni sul terreno: un anno in Costa d’Avorio, quasi un anno e mezzo nella Striscia di Gaza, Darfur, Sri Lanka alla fine della guerra. Poi sono stato due anni in Afghanistan e, infine, questo è il mio secondo anno in Iraq".

Quanti svizzeri sono impegnati nella missione in Iraq?
"Abbiamo un’ottantina di collaboratori provenienti dall’estero in Iraq divisi su tredici basi dal Sud al Nord del Paese. Di Svizzeri al momento dovremmo essere una quindicina".

Ci sono altri ticinesi oltre a lei?
"Ce n’è un altro, sì, si chiama Andrea Buletti, di Lugano, è il nostro coordinatore delle attività “acqua e sanitazione” e lui è di base nel Nord".

Dalla Svizzera si sente parlare in continuazione di scoppi di autobombe, è difficile capire come si possa vivere a Baghdad, come si svolge la vostra quotidianità?
"Baghdad ha una reputazione particolarmente sinistra che non è del tutto ingiustificata. I numeri sono spaventosi: nell’Iraq centrale nel mese di settembre c’è stata una media di 84 vittime al giorno, fra feriti e morti. Detto ciò, la quotidianità resta difficile, ma fattibile. È possibile muoversi per andare a incontrare gli iracheni che siamo qui per aiutare. Certo prende molto tempo per valutare se la situazione giornaliera è buona o no. Poi il traffico è molto problematico perché ci sono i posti di blocco che seguono alle esplosioni e agli attacchi. Però impariamo dagli iracheni che negli ultimi trenta anni hanno praticamente conosciuto solo guerre e hanno una capacità di reazione a queste cose che è spettacolare. Parlando con i colleghi io mi stupisco sempre di come riescano a mantenere il buonumore, di come reagiscano in maniera sempre positiva a una situazione tragica. È sempre gente che esce al ristorante la sera, va a camminare lungo il fiume con la famiglia, che cerca di mantenere una vita più normale possibile. Noi stranieri ci esponiamo comunque un po’ di meno al rischio, non usciamo moltissimo per motivi privati, ma si riesce comunque a uscire ogni tanto, ad andare in qualche ristorante, ad andare in qualche piscina pubblica. Baghdad resta nonostante tutto una città che ha molto carisma, molto charme. Ha una storia millenaria e nonostante 30 anni di guerra lo si vede ancora. Fortunatamente siamo in grado ogni tanto di vedere anche questo aspetto del Paese e non solo gli aspetti negativi".

In che zona della capitale vivete? È sicuro?
"Noi non viviamo all’interno della famosa Green Zone, che è la zona più blindata di Baghdad, proprio perché all’interno di quell’area non c’è contatto con la popolazione. Dove viviamo noi, abbiamo placche di metallo che proteggono alcune finestre in caso di esplosione, ma ci muoviamo sempre in auto non blindate, senza scorte armate, possiamo aprire i finestrini delle auto, cosa che molte organizzazioni con veicoli con autista non permettono di fare. Ci sono addirittura aree della città in cui possiamo camminare e andare a far la spesa nei negozietti che vendono frutta e verdura. Cerchiamo di mantenere un contatto con il mondo reale. Ho sempre un collega iracheno con me che funge da interprete e che, conoscendo la città, sa come reagire in caso di situazioni tese. È una grande città tentacolare dove muoversi da soli ancora non è possibile per prudenza".

Qual è la situazione della sicurezza fuori dalla capitale?
"Ci sono zone molto diverse nel Paese dal punto di vista etnico, confessionale e dal punto di vista della sicurezza. Il Nord, il Kurdistan iracheno, è una zona che ha beneficiato di almeno cinque anni di sicurezza quasi continua. Ad Arbil, il capoluogo, i nostri colleghi possono camminare in città, guidare la loro auto, andare al cinema e al supermercato. Esiste poi la zona dei cosiddetti territori contesi fra curdi e arabi, che si estende dalla zona di Mosul fino a Kirkuk, che è una zona piuttosto tesa. Il Sud, a predominanza sciita, ha beneficiato anch’esso di un periodo di relativa calma, anche se meno di sicuro del Nord. Sono stato recentemente nel Sud e ho avuto la possibilità, oltre al lavoro, di fare qualche visita al sito storico di Babilonia, ai siti sacri per gli sciiti a Najaf. Abbiamo visto insomma la famosa Mezzaluna fertile di cui parlano i libri di storia".

Dove andate per evadere dalla tesa realtà irachena?
"Abbiamo le cosiddette compensazioni. Le mete preferite per riposarsi un po’ se uno non vuole viaggiare molto sono Amman, in Giordania, che è a due ore di volo da Baghdad, o Beirut, che è a un’ora e mezzo. Altrimenti Dubai è a un’ora di volo e Istanbul a un’ora e mezzo. Rispetto la mia missione in Afghanistan la cosa che mi ha un po’ sorpreso è notare come Baghdad sia vicina a casa: riesco ad arrivare in Svizzera relativamente velocemente con le connessioni aree via Turchia".

Di cos’ha bisogno l’Iraq per superare la crisi della sicurezza?
"Serve stabilità politica. L’Iraq, poi, è interconnesso in un sistema di relazioni regionali in un Medioriente che sta passando un periodo particolare. La presenza di contesti vicini come la Siria tendono a destabilizzare la situazione interna irachena. Al di là dello scenario regionale, è solo una situazione politica che può portare pace e stabilità all’Iraq che è un Paese che ha delle ricchezze e ha un potenziale di sviluppo enorme".

Che cosa fa la Croce rossa in Iraq?
"La nostra missione qui è molto vasta. Abbiamo tutte le attività classiche della Croce rossa internazionale, dal supporto medico alle strutture sanitarie, al supporto a rifugiati e persone che lasciano i loro luoghi d’origine a causa delle violenze, attività di sostegno economico e agricolo, visita alle prigioni e contatto con i vari “portatori d’armi” per quanto riguarda la condotta delle ostilità".

Di cosa si occupa in qualità di vice direttore della missione?
"Mi occupo da una parte di gestire la sicurezza dei nostri team in Iraq e dall’altra di supervisionare il networking, ovvero i contatti con tutti coloro che possono facilitare il nostro lavoro. Siano essi parti del governo o autorità tradizionali tribali".

 

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