I mali che affliggono questo paese vanno ben oltre il sesso e la pedofilia. Noi, però, non lo sappiamo.
PHNOM PENH – Un paio di settimane fa, aprendo un portale informativo ticinese, ho letto un articolo su un caso di pedofilia, che coinvolge un cittadino svizzero proprietario di un albergo in Cambogia. La notizia raccontava per filo e per segno la vicenda di questo criminale. Già arrestato in passato per gli stessi motivi, il pedofilo è stato fermato grazie all’indagine di un’ONG attiva nel campo degli abusi su minori. Purtroppo, si parla di Cambogia solamente quando succedono fatti eclatanti come questo. Non che non se ne debba parlare, anzi! Di questo paese, però, si continua a conoscere poco o niente, perché una volta svanito l’effetto shock della notizia riguardante il pedofilo di turno, di Cambogia non si parla più. Alla fine questi casi sono solamente la punta dell’iceberg, sono una piccola parte visibile agli occhi di tutti, di un sistema che va ben oltre lo sfruttamento sessuale dei bambini e delle donne. La società cambogiana odierna è un’intricata matassa, le cui fila sono tenute da un mix di interessi pubblici-privati, in cui il mondo occidentale gioca un ruolo di grande peso.
Le Garment factories
Ognuno di noi è ben contento quando nelle nostre città i negozi espongono vestiti alla moda e a buon mercato. Durante i week end si passano intere giornate a fare shopping cercando il miglior rapporto prezzo/qualità del prodotto. Le grandi catene di articoli d’abbigliamento puntano sul fashion a buon mercato per continuare a fare grandi utili, malgrado la crisi. Se aprissimo i nostri armadi e ci mettessimo a leggere le etichette dei nostri vestiti, delle nostre scarpe, dei nostri accessori… Quante porterebbero la scritta “made in Cambodia”? Ci siamo mai chiesti come mai certi prodotti possano costare così poco? Ebbene fare una gita alla periferia di Phnom Penh, potrebbe aiutarci a capire perché. Lungo gli assi principali che si diramano dalla capitale, infatti, moltissimi marchi internazionali confezionano i loro prodotti. Capannoni di grandi dimensioni sono nascosti da cinte murarie alte un paio di metri. L’unico modo per vedere all’interno è attraverso l’imponente cancello d’entrata dove ci sono le guardie che controllano chi entra e chi esce.
Gli operai arrivano alla mattina stipati come animali a bordo di camion, camioncini, o rimorchi trainati motorini o motozappe. Sul ponte di un camion a due assi vengono ammassate fino a centocinquanta persone. Una volta scesi dai camion, gli operai e le operaie entrano dal portone e per le seguenti 10-12 ore non si vedono più. Li si rivede a sera, quando escono dall’entrata principale e vengono caricati sui camion in vista del viaggio di ritorno, che può durare fino a due ore, o anche di più. I lavoratori cambogiani accettano queste condizioni disumane perché sono l’unica opportunità che hanno per portare a casa qualche soldo. Molti di loro, soprattutto i meno abbienti, non sono ancora famigliari con il concetto di dignità umana. Sono così abituati a decenni di soprusi, così abituati ad abbassare la testa e ad accettare il loro destino davanti ai potenti, che vivono queste situazioni come parte del corso naturale delle cose. Non conoscono alternative. Ma chi sta a monte di tutto ciò? Chi rende questo scempio possibile? Da una parte abbiamo impresari senza scrupoli, cambogiani e non, che impiegano operai e operaie con stipendi da fame e condizioni lavorative disumane, per rincorrere profitti sempre maggiori. Dall’altra ci siamo noi “occidentali” con la nostra sete di consumi, esasperata dai media che stanno creando bisogni del tutto inesistenti, con il solo scopo di spingerci in questa dinamica consumistica scellerata. In fin dei conti il colonialismo non è mai terminato, ha solo assunto forme più raffinate. Oggi più che mai, Il capitalismo ha un disperato bisogno di questo neo-colonialismo per continuare a far galleggiare quella barca che sta facendo acqua da tutte le parti.
In Svizzera ci indigniamo quando una ditta leva le tende per installarsi in un qualche paese che garantisce mano d’opera e costi di produzione molto bassi. Purtroppo ci indigniamo solamente per il fatto, che alcuni lavoratori svizzeri perderanno il lavoro. Non pensiamo mai all’impatto che questa situazione produce presso le comunità che vengono coinvolte in questo processo di pseudo sviluppo. Se guardassimo la cruda realtà dei numeri, ci accorgeremmo che le persone schiavizzate da queste ditte senza scrupoli sono infinitamente di più rispetto alle persone abusate sessualmente.
La Cambogia che dovrebbe far notizia
Martedì 12 novembre una donna è stata uccisa da un proiettile sparato dalla polizia. La donna è stata colpita mentre scioperava assieme ad altre centinaia di operai ed operaie, per rivendicare condizioni lavorative più umane. La polizia e l’esercito sono stati autorizzati dal governo cambogiano all’uso di lacrimogeni e munizioni vere. I giorni seguenti questo fatto, mi sono messo alla ricerca della notizia su alcuni portali svizzeri d’informazione. Niente, nessuna traccia di ciò che è successo a Phnom Penh. Eppure questa notizia è legata in modo indissolubile all’occidente. La SL Garement, luogo degli scontri tra polizia e operai, produce capi d’abbigliamento per H&M e Gap, che molti di noi sicuramente avranno nell’armadio. Magari una delle nostre magliette è proprio stata confezionata da quella donna, ora morta perché chiedeva un minimo di dignità nel proprio lavoro.
Ci rendiamo veramente conto delle condizioni disumane alle quali moltissimi lavoratori sono costretti, in mancanza d’alternative, per soddisfare i nostri bisogni di consumo? Noi che pensiamo di essere all’apice del progresso sociale ed educativo, in realtà siamo solamente mal informati o meglio, non informati. Diventiamo così complici “inconsapevoli” di questo sistema perverso che non fa altro che aumentare le disparità sociali. Forse bisognerebbe iniziare a chiedersi come mai, di fatti come quello della donna uccisa il 12 novembre, alle nostre latitudini si è sentito poco o niente.
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