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Vite dimenticate dentro casa

Storie tremende di chi è stato segregato e abusato per anni
Storie tremende di chi è stato segregato e abusato per anni

Uno dei primi casi a far scalpore fu quello di Blanche Monnier. Era giovane, irrequieta e molto bella, ma nessuno si chiese che fine avesse fatto quando, di punto in bianco, sparì. Eppure era di una classe altolocata, figlia di un professore di lettere all’Università di Poitiers, e fino al 1874 non le erano stati negati i divertimenti riservati alla sua condizione sociale. Poi, da un giorno a un altro, la ragazza scomparve nel nulla e si dovette aspettare 25 anni per conoscerne il tragico destino. Grazie a una lettera anonima, inviata al Procuratore generale della città, nel maggio del 1901 la ragazza fu ritrovata dai poliziotti rinchiusa in una stanza della casa paterna dove, tra resti di cibo ed escrementi, aveva passato tutta la sua vita. Morì 12 anni dopo in un Ospedale psichiatrico di Blois, devastata nel corpo e nella mente, mentre i suoi carcerieri, la madre e il fratello Marcel, se la cavarono con pene irrisorie.

Depositphotos (Martyna1802)

«Ma davvero siete venuti per liberarmi?» - Si potrebbe pensare che una storia tanto al limite sia da relegarsi a tempi passati, in cui non si parlava di libertà personale e autodeterminazione, specialmente declinate al femminile, se non fosse che di casi di persone segregate in casa continuano a essercene tantissimi ancora ora. Circa due anni una donna di 67 anni di Bojano, un comune italiano nella provincia di Campobasso, in Molise, è stata liberata dai carabinieri dopo essere stata, per 22 anni, segregata in una stanza dal fratello e dalla cognata. «Ma davvero siete venuti per liberarmi?» ha chiesto incredula agli agenti per poi «scoppiare in un pianto liberatorio».

Anche in questo caso è stata una lettera anonima, ricevuta dal capitano Edgard Pica, a dar corso alle indagini che hanno permesso di far luce sulla drammatica vicenda. Rimasta vedova nel 1995, la donna ha accettato di andare a vivere con il fratello e sua moglie, convinta di poter lenire il suo senso di solitudine, ma ignara del fatto che si stava consegnando a degli aguzzini. Per 22 anni la donna ha vissuto chiusa in una stanza ricavata da una vecchia legnaia, senza riscaldamento, ridotta al silenzio con schiaffi e insulti. Non le venivano assicurate le cure mediche e, come raccontato dalla donna, «potevo lavarmi una volta al mese nella vasca del bucato».

Un amore morboso - Pochi anni prima, nel 2015, aveva destato profondo sgomento la vicenda di Laura Carla Lodola, una donna di 55 anni rinchiusa per oltre 20 anni in un appartamento alla periferia di Pavia. Era stato il compagno Antonio Calandrini a richiedere, infine, un aiuto sanitario, dopo aver scoperto che la donna aveva perso conoscenza. I sanitari si sono trovati davanti a uno scheletro di appena 15 chilogrammi, con i capelli lunghi fin oltre i piedi e le unghie più lunghe delle stesse dita. Un soccorritore l’ha definita «una piccola mummia rattrappita». La donna è morta poco dopo l’arrivo in ospedale mentre il compagno raccontava di un amore morboso che li ha fatti allontanare da qualsiasi forma di rapporto umano. La loro routine era molto semplice: tapparelle abbassate, niente tv o telefono, due cucchiaini di minestra e poi a dormire insieme in quel letto sudicio. I vicini hanno raccontato di aver sentito spesso delle urla provenire dall’appartamento ma, una volta in casa, tutto era sembrato normale. Anche il fratello della donna, nel 2010, aveva dichiarato la propria volontà di rivolgersi ai servizi sociali ma Calandrini si era opposto, arrivando a prendersi una aspettativa dal posto di lavoro per rinchiudersi in casa con lei e «accudirla».

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Case che diventano prigioni - Appare incredibile che, per i motivi più vari, molte esistenze possano finire inghiottite dentro delle case che diventano prigioni inespugnabili, eppure è più frequente di ciò che si pensi. Solo pochi giorni fa si è avuta notizia di un uomo polacco che avrebbe tenuto una donna in un porcile per più di cinque anni. Il 35enne è accusato di maltrattamenti estremamente crudeli: avrebbe torturato fisicamente e psicologicamente la donna, una 30enne, picchiandola e violentandola ripetutamente. Ora l'uomo si trova in custodia cauterlare e, se ritenuto colpevole, rischia una condanna fino a 25 anni di reclusione.

A lanciare l'allarme sono stati i sanitari di un ospedale, nel quale la donna era stata portata per una spalla lussata. Ben presto i medici si sono accorti di ben altre ferite. Nel corso di una conversazione con uno psicologo la 30enne ha raccontato la sua storia di sofferenze, iniziata dopo aver conosciuto online nel 2019 quello che sarebbe diventato il suo aguzzino. Qualche tempo fa ha anche partorito un bambino, che è stato dato in adozione. Nel villaggio della Bassa Slesia nessuno parla, ma «è difficile credere che nessuno abbia sentito le urla della donna» afferma qualcuno venuto a conoscenza del dramma. «Penso che siamo di fronte a una congiura del silenzio, come spesso accade nelle piccole comunità».

Il bisogno di controllo - Capita poi di leggere di una madre, in Calabria, che ha tenuto segregato in casa il figlio per 22 anni, legato a letto in un maleodorante tugurio. Il ragazzo, una volta liberato, si è rivelato essere incapace di parlare, mangiare e controllare i propri bisogni fisiologici e, come raccontato dal medico che lo ha preso in cura, «nasconde le braccia sotto le lenzuola per paura di essere legato al letto». I casi sembrano assomigliarsi tutti nella loro drammatica ripetitività fatta di stanze chiuse, tende tirate, letti che diventano barche in un mare di disperazione. Lo si fa per mania del controllo, per impossessarsi di una pensione che fa gola, magari facendosi passare per il fidanzato di una persona disabile, o per motivi tanto oscuri quanto insondabili.

Secondo la psicologa Graziella Mercanti «segregare una persona significa sottoporla a un totale controllo privandola della sua libertà. Si tratta di una patologia mentale di cui possono essere affetti sia gli uomini che le donne che, in questo caso, tendono a sviluppare atteggiamenti e comportamenti di controllo nei confronti dei figli». Il bisogno di controllo, come spiegato dall’esperta, è una condizione umana comune, che compensa il sentimento di incertezza e di impotenza che caratterizza le nostre emozioni, anche se, in alcuni casi tale bisogno può assumere dimensioni «gravemente patologiche».

IMAGO / Wolfgang Maria WeberL'esterno dell'abitazione di Josef Fritzl.

Il caso di Elisabeth Fritzl - Tra i casi di segregazione drammaticamente più famosi non possono non essere ricordati quelli di Elisabeth Fritzl e Natasha Kampush. La prima, visse rinchiusa per 24 anni in un bunker sotterraneo costruito dal padre, l’ingegnere Josef Fritzl, nella cittadina di Amstetten, in Austria. Durante la sua prigionia, durata dal 1984 al 2008, la ragazza venne sottoposta dal padre a ripetuti abusi sessuali, a seguito dei quali la ragazza mise la mondo 7 figli senza alcuna assistenza medica. Tre di loro vennero allevati dal padre e da sua moglie come figli adottivi, altri tre rimasero sempre nel bunker con la madre, senza poter vedere la luce del sole, mentre un bambino morì tre giorni dopo la sua nascita. Gli anni nella cantina degli orrori verranno descritti dalla ragazza con poche ma terribili parole: «Luci spente, stupro, luci accese, muffa, umidità e lui che va via». Solo nel 2008, a seguito del ricovero in ospedale della figlia maggiore della donna, la polizia locale ha modo di parlare con Elisabeth che verrà liberata dal suo carceriere insieme ai propri figli.

Quello di Natasha Kampusch - Natasha Kampusch aveva 10 anni appena quando venne rapita, il 2 marzo 1998 a Vienna, da Wolfgang Priklopil e rinchiusa in un angusto locale sotto il garage di proprietà dell’uomo. Come raccontato dalla Kampusch, il rapitore le impose una nuova identità e le ripeteva di continuo: «Per te esisto solo io, sei la mia schiava». La giovane veniva costantemente picchiata ed umiliata fisicamente, oltre che abusata sessualmente, e sottoposta ad un controllo costante grazie ad un sistema di telecamere e interfoni. Dopo 8 anni e mezzo di prigionia, nel 2006, la giovane, approfittando di un momento di distrazione del carceriere, riuscì a fuggire dal giardino attraverso il cancello aperto, e a chiedere aiuto. Priklopil, vistosi braccato e senza scampo, si suicidò buttandosi sotto un treno in corsa.

IMAGO / teutopressNatasha Kampusch.

Altri casi tristemente celebri - Nel 2018 la cronaca internazionale si occupò del caso Turpin, una famiglia texana pentecostale, composta dal padre David e dalla madre Louise, che teneva in stato di prigionia i loro 13 figli, di età compresa tra i 29 ed i due anni. Per anni i genitori hanno picchiato e oppresso i figli, permettendo loro di mangiare una volta al giorno e fare la doccia una volta all’anno. Per tale motivo il ragazzo di 29 anni, al momento del ritrovo, pesava solo 37 chilogrammi mentre il bambino di 11 anni aveva la circonferenza del braccio di un neonato di 4 mesi. La polizia, allertata da uno di loro, Jordan, fuggito attraverso la finestra, trovò in casa escrementi e rifiuti in decomposizione, animali domestici morti e cibo ammuffito. I giovani erano pieni di lividi e gravemente malnutriti tanto da venire scambiati tutti per minorenni, nonostante 7 di loro avessero già più di 18 anni.

Nel 2013, invece, a tenere banco fu il caso Ariel Castro, che, tra il 2002 e il 2004, aveva rapito tre giovani donne facendole prigioniere nella propria abitazione a Cleveland, nell’Ohio. Le ragazze venivano tenute in uno stato di schiavitù, legate con catene mani e piedi, e rinchiuse in una stanza buia con le finestre inchiodate per scongiurare il pericolo di fuga. Le giovani venivano poi ripetutamente violentate e abusate, tanto che, una di loro, diede alla luce una bambina nel 2006, venivano nutrite una volta al giorno e potevano lavarsi due volte alla settimana massimo. Citare tutti i casi di persone tenute in stato di segregazione da persone conosciute, o emeriti sconosciuti, è impossibile e quando poi si apprende di una storia che suscita orrore, si scopre poi che all’orrore non c’è mai fine.


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