Alle case anziani è stato chiesto di limitare al massimo le ospedalizzazioni.
Considerato il tasso di mortalità elevato nelle cure intense, vanno evitate ulteriori sofferenze ai pazienti e il sovraccarico dei nosocomi
LUGANO - Gli ospedali ticinesi sono sempre più pieni. Proprio ieri il direttore della Divisione malattie trasmissibili Daniel Koch ha messo in guardia la popolazione sostenendo che se i contagi dovessero proseguire con l’evoluzione che hanno avuto finora, i reparti di cure intense del nostro Cantone rischiano di essere piene già lunedì prossimo.
L’indisponibilità di posti letto nei nosocomi obbliga quindi tutti gli operatori del settore sanitario a modificare il proprio modo di lavorare. Fra questi ci sono anche i collaboratori delle case anziani.
Filtrare di più - «Qualora entrasse in considerazione il ricovero in ospedale di un paziente, l’attuale emergenza deve indurre a una valutazione ulteriore che tenga in considerazione anche gli aspetti etici», si legge su un’informativa redatta dal Gruppo di lavoro Case anziani medicalizzate e inviata a tutti i direttori sanitari del Cantone. In altre parole, è necessario “filtrare” maggiormente le ospedalizzazioni e, se possibile, curare il residente di casa anziani nella propria camera.
No all’accanimento - Fra gli aspetti etici che entrano in considerazione nella scelta di ospedalizzare o meno gli ospiti delle case anziani c’è la “non maleficenza”: impedire, se la valutazione multidisciplinare stabilisce una prognosi infausta, che l’anziano sia intubato e ventilato, «in modo da evitare così un’ulteriore sofferenza che si configura in un futile accanimento terapeutico».
Autonomia nelle decisioni non garantita - Ma c’è pure “l’autonomia decisionale” (il consenso libero e informato dei pazienti) che però «non sempre potrà essere garantita». Infatti, da qualche giorno le visite dei parenti (con cui spesso i pazienti si consultano) sono vietate, mentre quando l’interlocutore per ragioni cognitive è il rappresentante terapeutico (e non il paziente stesso), l’invito è di «non esitare a parlare di “accanimento terapeutico” se insistentemente è richiesto un trasferimento in ospedale»
L’età non conta - Basandosi sui dati raccolti in Italia, il Gruppo di lavoro evidenzia poi come la mortalità globale dei pazienti ammessi in cure intense sia del 40% e che questa varia molto in funzione dell’età. Maggiore è l’età, maggiore è la mortalità (nei soggetti sopra gli 85 anni la mortalità è dell’80%). «La beneficenza di un ricovero è quindi sproporzionatamente bassa», viene sottolineato, precisando però che «non c’è bianco o nero e l’età non è un criterio di selezione». Il meccanismo con il quale i pazienti sono ammessi in cure intense deve piuttosto tenere conto di criteri legati allo stato di salute alla resistenza alle cure: «Il paziente ha/non ha le caratteristiche per sopravvivere (fattori predittivi)?».
Un’unica struttura per anziani positivi? - Nel documento si parla anche dell’ipotesi di concentrare i pazienti delle case anziani positivi al coronavirus in un unico istituto (un po’ come avviene oggi alla Carità e a Moncucco per i pazienti positivi di tutte le età). Ma se dal punto di vista epidemiologico e del know how del personale curante «la proposta è sensata», si tratta di una misura di difficile realizzazione. Piuttosto, in ogni Casa per anziani deve essere valutata la possibilità di “centralizzare” spostando i residenti in un’unica ala. Si rende però attenti sul fatto che ogni stanza «è il luogo di vita del residente stesso».
L’ibuprofene va bene o no? - Il documento di otto pagine, redatto il 16 marzo, contiene anche alcune indicazioni sull’utilizzo del materiale (mascherine e occhiali) e dei farmaci. Ad esempio il cortisone è «assolutamente da non dare». C’è però un’informazione smentita solo un giorno dopo dall’Ufficio federale di sanità pubblica (UFSP). Ai collaboratori si è infatti comunicato che in assenza di Paracetamolo (il cui 95% della produzione arriva dalla Cina) lo si può sostituire con l’Ibuprofene. Che però l’UFSP sconsiglia.