Il regista israeliano Avi Mograbi è ospite al Film Festival Diritti Umani dove otterrà il "Premio Diritti Umani per l'autore".
LUGANO - Soprusi, violenze e umiliazioni. I film del regista israeliano Avi Mograbi mettono a nudo una realtà che troppo spesso viene ignorata. Una denuncia diretta dell'occupazione, da parte del suo stesso paese, dei territori palestinesi. Riprese che mostrano pratiche e strategie che da anni negano il diritto a una parte della popolazione dello Stato ebraico. Ripercorriamo con il regista, che sarà ospite al Film Festival Diritti Umani Lugano (FFDUL) dove otterrà sabato 19 ottobre il "Premio Diritti Umani per l'autore", le testimonianze raccolte nei suoi film.
«Israele sta commettendo crimini di guerra dal 1948, dall'anno dalla sua fondazione». La guerra a Gaza, estesa ormai anche in Libano, ha forse riacceso l'attenzione mediatica su un conflitto mai terminato, ma le violenze delle Forze di difesa israeliane non sono una novità. «L'esistenza stessa dello Stato di Israele dipende dai crimini di guerra che il suo stesso esercito commette», precisa Mograbi.
Il regista è stato spesso criticato in patria per il contenuto dei suoi film. Malgrado le difficoltà non ha però mai perso l'amore per la sua terra. «Sono ossessionato da Israele. È il luogo dove sono cresciuto. Sento tanta rabbia e frustrazione, anche un po' di confusione, ma fa parte di me e non potrò mai sbarazzarmene».
Costretto a lasciare il paese a causa delle condizioni di vita giudicate non più adeguate, Mograbi ha trovato rifugio in Portogallo (dove possiede la cittadinanza). «Sento la mancanza di casa mia, non dello Stato».
I suoi film hanno dato voce alla rabbia di una popolazione che ha subito per anni umiliazioni e violenze. Hanno avuto l'impatto che si aspettava?
«No, ovviamente. L'occupazione è diventata più crudele e terribile. La verità è che la convinzione che i film possano creare dei cambiamenti è molto ingenuo. Per molto tempo ho pensato che le mie produzioni fossero parte di un movimento. Ma non è cambiato niente. Chi ha il potere per apportare questi cambiamenti non guarda certamente i miei film. I fascisti non pagano il biglietto del cinema per vedere i film di Mograbi. Il cinema non è purtroppo uno spazio di dialogo tra correnti di pensiero diverse».
Sono stati quindi inutili?
«No, ma sono convinto che questi film debbano essere prodotti per chi si è già "convertito". Per chi già condivide i valori democratici. Allora sì diventano uno spazio per discutere e per analizzare i temi che trattano. Questo passo è importante per difendere i valori conquistati dagli attacchi di chi vuole distruggerli».
La società israeliana è divisa tra chi crede in uno Stato di diritto e chi invece sogna un grande Israele dal fiume al mare. Crede che il paese si possa spaccare scatenando una guerra civile?
«Non penso che in Israele scoppi una guerra civile. Ma sarebbe un bene. Si dice che il momento migliore della storia degli Stati Uniti sia stato durante la guerra civile. Un momento in cui lottavano per la democrazia e per dei valori condivisi. In Israele non c'è il pericolo che tutto questo accada perché la grande maggioranza dei cittadini crede che il territorio dello Stato ebraico sia dal fiume al mare. Anche quando parlano della soluzione a due stati, credono in realtà a un grande Israele senza diritti per i palestinesi».
Perché in Israele la legge non è uguale per tutti?
«È così che funzionano le dittature. Ci sono 9 milioni di persone: 7.5 israeliani e 1.5 palestinesi. Se anche il resto della popolazione palestinese dei territori occupati ottenesse i diritti e potesse votare sarebbe la fine di Israele. Non concedono i diritti perché è l'unico modo per sopravvivere. Israele non è una democrazia. Lo stato è governato da forze che non accettano di integrare i palestinesi nelle scelte democratiche».
Chi critica lo Stato di Israele spesso viene accusato di antisemitismo. Viene usato un trauma storico come arma?
«L'antisemitismo è l’etichetta peggiore che si possa affibbiare a qualcuno. Definire antisemita chi critica il governo di Israele è una forma di populismo per non rispondere alle contestazioni».