Il dibattito attorno alla virulenza della malattia non accenna a placarsi.
Alcuni studiosi ritengono che il Covid abbia perso molta della sua potenza. Altri sostengo invece che il rallentamento della diffusione sia dovuto essenzialmente alle misure adottate.
LONDRA - Il dibattito si accende intorno alla virulenza del Coronavirus tra quanti, riferendosi ad una evidenza clinica, ritengono che il Covid abbia perso molta della sua potenza e quanti invece ritengono che ciò sia dovuto alle misure prese con il lockdown. Tutti però concordano che non ci sono a ora evidenze scientifiche per dire che il virus sia mutato e soprattutto in quale direzione.
Secondo quanto riportato in un recente studio, sarebbero più di 6.800 le mutazioni comparse nel genoma del coronavirus durante la sua corsa intorno al mondo: tra quelle più comuni, non ne è stata trovata alcuna che ne abbia aumentato la contagiosità, mentre la maggior parte potrebbe addirittura aver penalizzato il virus. Il più delle volte questi cambiamenti non sarebbero nati come risultato dell'adattamento del virus all'uomo, ma sarebbero stati indotti proprio dai meccanismi di difesa immunitaria delle persone infettate.
A indicarlo è uno studio internazionale - di cui si è parlato nelle scorse settimane - coordinato dall'University College di Londra e condiviso su bioRxiv, il sito che traccia gli articoli scientifici non ancora sottoposti a revisione per la pubblicazione su una rivista ufficiale.
Analizzando i genomi virali recuperati da oltre 15.000 pazienti Covid di 75 Paesi, i ricercatori hanno identificato 6.822 mutazioni, di cui 273 sono comparse più volte e in maniera indipendente. Tra queste, 31 sono state studiate attentamente perché si sono manifestate almeno 10 volte nel corso della pandemia. Dopo averle inserite nell'albero evolutivo del coronavirus, i ricercatori hanno valutato se fossero diventate particolarmente comuni in alcuni «rami»: questo segnale indicherebbe infatti che le mutazioni hanno conferito un vantaggio evolutivo rispetto ai virus precedenti che ne erano sprovvisti.
«Abbiamo usato una nuova tecnica per determinare se i virus con nuove mutazioni fossero trasmessi più facilmente - spiega il coordinatore dello studio Francois Balloux - e abbiamo osservato che nessuna delle mutazioni candidate sembra portare benefici al virus», neppure la famosa mutazione D614G della proteina Spike che nelle settimane scorse aveva fatto ipotizzare l'esistenza di un ceppo più contagioso. Alcune delle mutazioni più comuni sembrano essere neutrali, mentre «la maggior parte è leggermente deleteria per il virus». A indurle sarebbe stato il più delle volte lo stesso sistema immunitario dell'uomo grazie all'azione di difesa innata esercitata da alcuni enzimi delle cellule, capaci di modificare il materiale genetico del virus invasore attraverso l'Rna editing.