Zhan Zhang, docente di comunicazioni all'USI, ci aiuta a sciogliere alcuni dubbi per capire le ragioni delle tensioni.
Lo studio della tradizione e della cultura cinese permette di dare una spiegazione alla politica estera aggressiva adottata da Pechino.
LUGANO / TAIPEI - Missili, droni, caccia da guerra e portaerei militari. La Cina mostra i muscoli nello stretto di Taiwan in risposta alla visita sull’isola della speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi. Un viaggio interpretato da Pechino come una pura e semplice provocazione. Le esercitazioni militari intanto sono giunte al termine, ma le tensioni rimangono alte. Le relazioni tra Stati Uniti e Cina sono sprofondate ai minimi storici. Per tracciare un quadro comprensibile degli avvenimenti recenti abbiamo contattato la docente della facoltà di comunicazione dell’Università della Svizzera italiana Zhan Zhang. Grazie alle sue conoscenze interculturali Zhang ci aiuta a mettere in prospettiva le tensioni esplose durante l’ultima settimana con la storia del suo Paese. «Discutere di Taiwan oggi significa parlare della competizione tra Cina e Stati Uniti» esordisce la docente dell’USI.
Come è nato il principio One-China?
«Il principio One-China è nato quando i sostenitori del partito nazionalista, dopo essere stati sconfitti nel 1949 in una guerra civile dal partito comunista guidato da Tse-tung Mao, sono fuggiti sull’isola di Taiwan. È importante sottolineare che all’origine questo concetto era condiviso da entrambi i partiti politici. I nazionalisti fuggiti sull’isola hanno per anni coltivato il sogno di unificare il Paese e di riprendere la leadership politica. Il concetto è stato dunque concepito da entrambe le parti».
Come mai il governo di Pechino non ha ripreso subito il controllo dell’isola?
«Sono due i motivi. Gli Stati Uniti hanno colto immediatamente l’occasione per estendere l’ala protettiva sull’isola. Oltre al supporto americano, l’inizio della guerra di Corea ha progressivamente spostato l’attenzione del partito comunista al nuovo conflitto in corso»
La situazione come è evoluta da allora?
«Durante gli anni 70’, la Cina si è avvicinata progressivamente agli Stati Uniti. Nel contesto della guerra fredda, i rapporti tra Pechino e Mosca si erano incrinati, favorendo un approccio diverso e più aperto verso Washington. La visita del presidente Nixon nel 1972 è stata l’apice di questo processo. Già allora la questione Taiwan rappresentava un nodo cruciale per le relazioni tra i due paesi. Durante le discussioni i due governi giunsero alla conclusione di un accordo per stabilizzare la situazione. Gli Stati Uniti hanno riconosciuto che tutti i cinesi su entrambi i lati dello stretto di Taiwan sostengono che esiste una sola Cina, e che Taiwan fa parte della Cina. Questa formulazione ha poi permesso agli Stati Uniti di interpretare a seconda delle necessità l’accordo».
Perché Pechino non può permettere l’indipendenza di Taiwan?
«Pechino considera Taiwan parte del suo territorio nazionale. Rispetto alla cultura occidentale, per natura più espansionistica, nella tradizione cinese il concetto di protezione e di difesa delle frontiere ha un ruolo centrale. La geografia stessa rivela l’importanza della protezione dei confini.Il simbolo della grande Muraglia rappresenta alla perfezione questa mentalità difensiva. Parlare di Taiwan come un paese indipendente per la Cina è un oltraggio alla sua autodeterminazione».
Queste differenze con la cultura europea e occidentale, come si traducono in politica estera?
«L’impatto di questa tradizione protezionista sulla politica estera risale principalmente al “Secolo dell’umiliazione”. Un periodo di 110 anni, tra il 1839 e il 1949, che viene ricordato come disonore e durante il quale la Cina ha perso la sovranità del suo territorio in favore del Giappone e delle potenze occidentali. La leadership del partito comunista ha fondato la sua legittimità al potere sull'orgoglio nazionale, sulla sovranità e sul sogno cinese».
Come si comporta la diplomazia cinese verso la comunità internazionale?
«Durante tutto l’anno ho osservato un grande cambiamento nell’approccio della diplomazia cinese verso la comunità internazionale. Per la cultura cinese è molto importante avere un attitudine forte volta a proteggere gli interessi nazionali. Il governo cinese vuole diffondere un’immagine sicura e risoluta del Paese per poter affrontare i grandi cambiamenti che stanno sconvolgendo la geopolitica mondiale. La diplomazia cinese potrebbe però ottenere maggiori risultati se aderisse a una linea politica più soft».
Come interpreta la violenta reazione di Pechino alla visita di Pelosi?
«La reazione cinese potrebbe apparire espansionistica. La logica alla base del comportamento cinese invece è esattamente opposta. Il governo di Pechino si è sentito attaccato nella sua integrità. La Cina ha percepito il viaggio di Pelosi come una minaccia e come una violazione dei precedenti accordi. Gli Stati Uniti usano Taiwan come strumento per fare pressione sulla Cina. Il sentimento di minaccia spiega in qualche modo la reazione cinese».
Quali potrebbero essere i risvolti di queste tensioni?
«La questione Taiwan può esplodere in modo evidente e portare a un’escalation militare. Però allo stesso modo può rivelarsi solo un fuoco di paglia come è successo spesso in passato. L'interferenza degli Stati Uniti sta testando il limite della pazienza cinese. Pechino, prima della visita di Pelosi, ha lanciato diversi avvertimenti a Washington. Un altro aspetto importante da prendere in considerazione sono i cambiamenti interni dell’isola. Le generazioni a Taiwan stanno cambiando e con loro la percezione del conflitto. La generazione precedente, che aveva difeso e sognato il ritorno a un’unica nazione, sta scomparendo. I giovani oggi sono nati e cresciuti in un contesto diverso e di conseguenza considerano la relazione con Pechino sotto uno sguardo nuovo. Il governo cinese però sembra ignorare questi cambiamenti».