Lucio Caracciolo, direttore della rivista geopolitica Limes, introduce la conferenza "Attacco allo Stato liberale” in programma questa sera.
LUGANO - Guerra, violenza e corruzione, l’invasione russa all’Ucraina è solo un tassello di un mosaico di conflitti e scontri in corso in tutto il mondo. La difesa dei valori democratici passa da una presa di coscienza maggiore della capillarità di una guerra molto più estesa.
Lucio Caracciolo, direttore della rivista geopolitica Limes, introduce la conferenza "Attacco allo Stato liberale” in programma questa sera presso l’Auditorium dell'Università della Svizzera italiana. L’evento, organizzato dal Circolo Liberale di cultura Carlo Battaglini, invita a riflettere per tracciare un fil rouge degli eventi recenti.
«L’aspetto più importante è che alcuni paesi, in particolare nell’Europa sudorientale che sono da poco entrati nel sistema europeo, vengono giudicati in modo ambiguo. I criteri che normalmente in Occidente consideriamo liberali sono amministrati con omeopatia (se posso usare un eufemismo). Questo rende più evidenti alcune faglie culturali e politiche che attraversano lo spazio europeo. Mi riferisco in particolare alla Polonia, ai paesi baltici e altri paesi che tra l’altro stanno costruendo muri alle proprie frontiere. Un atteggiamento che non mi sembra tipicamente liberale».
Cosa è cambiato dopo il 24 di febbraio del 2022?
«La guerra in Ucraina ha creato uno spartiacque. Prima dell’invasione russa paesi come la Polonia e l’Ungheria, oppure alcuni paesi baltici, erano sotto osservazione e sotto forme di sanzione. Dopo l’attacco russo tutti questi problemi sono venuti in secondo piano dato che si trattava di organizzare la risposta a un aggressore. La Polonia è decisiva per esempio nel garantire il rifornimento di armi all'Ucraina. E quindi abbiamo deciso di chiudere un occhio e mezzo, se non due».
L’invasione dell'Ucraina, oltre a una violazione della sovranità di una nazione, è stata definita come un'aggressione all'ordine internazionale basato sul rifiuto della guerra per raggiungere obiettivi politici.
«Non vedo francamente un mondo senza guerra, i conflitti ci sono sempre stati. Quello che eravamo abituati a pensare è che l’Europa fosse esentata da queste tragedie. Le cose non sono andate esattamente così. L’Europa lo è stata fino alla fine della Guerra Fredda (che è stata nient’altro che una forma di pace organizzata dalle due superpotenze). Dopo la fine della guerra fredda abbiamo assistito alla guerra in Jugoslavia, che è durata una decina di anni facendo migliaia di morti. Una questione che non è ancora stata risolta. Adesso, abbiamo una guerra di altre dimensioni strategiche, in Ucraina. Una situazione che per noi può apparire eccezionale, ma sia per il passato recente europeo, sia per il quadro mondiale, non è così eccezionale. Quando Papa Francesco parla di guerra mondiale a pezzi disegna un quadro abbastanza corretto dal punto di vista analitico».
Vivevamo in una bolla di sapone?
«Vivevamo in una bolla pensando che fosse eterna. Non so fino a che punto siamo coscienti della situazione in cui siamo. Cioè un conflitto su scala mondiale che coinvolge anche il fronte indopacifico, dove la Cina si scontra con gli Stati Uniti. Tutto questo deve essere considerato nel suo insieme. Considerare che noi europei possiamo essere immuni dalle conseguenze del conflitto, inteso sia come milioni di profughi ucraini in fuga e come sanzioni e controsanzioni, è utopico. Tutto questo crea il rischio di tendenze irrazionali e illiberali».
I diritti umani sono tornati al centro delle relazioni internazionali, come mai?
«Perché c’è stata l’aggressione russa. L’attenzione dei nostri governi verso i diritti umani è selettiva. L'esempio della Cina è significativo. Tutti i paesi che da una parte a parole condannano le violazioni dei diritti umani a Pechino, ma dall’altra costruiscono formidabili relazioni economiche e finanziarie. D'altronde alcuni paesi che fanno parte del nostro sistema atlantico, Turchia, non brillano per rispetto dei diritti umani. Noi italiani abbiamo deciso di rinunciare al gas russo, vedremo fino a che punto e in che misura. Ci siamo rivolti all'Algeria, un regime militare per altro strettamente legato alla Russia».
La democrazia non è minacciata soltanto dalle bombe di Putin, ma anche dalla corruzione. Il recente scandalo Qatargate lo dimostra.
«La corruzione purtroppo non è un fenomeno da cui si può essere totalmente esenti. Non ci sono paesi immuni. Ci sono vari gradi di corruzione. Nei rapporti internazionali la corruzione può essere uno strumento di ricatto e di pressione. Similmente a quanto accade per i diritti umani. La corruzione diventa problematica quando il paese in questione è un problema. Per esempio, il caso ucraino è evidente. Prima della guerra tutti parlavano della corruzione adesso nessuno. Solo Zelensky che sta facendo dimettere un ministro dopo l’altro».
L’Occidente continua a utilizzare le sanzioni per rispondere alla violenza dei regimi autoritari, sono efficaci?
«Come tutta la storia ci ricorda, funzionano poco o funzionano al contrario. In molti casi cementano il consenso al regime. Per esempio, se pensiamo al caso russo. Le sanzioni vengono spesso aggirate. La loro incisività nei regimi è finora piuttosto limitata se non addirittura controproducente. Le sanzioni le facciamo un po’ per salvarci l’anima. Un po’ per fare finta di essere uniti. Un po' perché preferiamo le sanzioni alla guerra. Mi sembra in linea di principio un atteggiamento legittimo che però dal punto di vista concreto è meno incisivo».