La violenta repressione della Rivoluzione da parte delle autorità iraniane non può continuare. L’appello di Amnesty International.
TEHERAN - «Jin Jiyan Azadî», donna, vita e libertà. Lo slogan che ha accompagnato la Rivoluzione iraniana scoppiata un anno fa a seguito dell’uccisione da parte della polizia della moralità della giovane curda Mahsa Amini. Un dolore sentito sulla propria pelle da parte di un intero popolo che ha deciso di sfidare le violenze e le torture per scendere in piazza per dar sfogo alla rabbia contro l'oppressione del regime.
La repressione del regime - Durante quest'ultimo anno, nel tentativo di sradicare qualsiasi contestazione del potere, le autorità iraniane hanno commesso una lunga serie di crimini di diritto internazionale. «Le autorità iraniane hanno speso un anno a infliggere crudeltà indicibili alle persone in Iran, punite per aver coraggiosamente sfidato decenni di repressione e disuguaglianza. A un anno dalla morte in carcere di Mahsa Jina Amini, nessun funzionario è stato indagato penalmente, né perseguito e punito per i crimini commessi durante e all'indomani della rivolta», ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa.
Il sostegno alle vittime - L’Ong a difesa dei diritti umani, in occasione della prima ricorrenza dell'inizio delle proteste, ha deciso di riaccendere l’attenzione mediatica sulle uccisioni illegali, le esecuzioni, gli arresti, le torture e gli stupri perpetrati dal regime. «L'anniversario delle proteste"Donna Vita Libertà" costituisce un forte richiamo per i Paesi di tutto il mondo riguardo la necessità di avviare indagini penali sui crimini commessi dalle autorità iraniane nell'ambito della giurisdizione universale. Le dichiarazioni dei governi che chiedono alle autorità iraniane di interrompere l'uso illegale di armi da fuoco contro i manifestanti, di smettere di torturare i detenuti e di rilasciare tutte le persone detenute per aver esercitato pacificamente i loro diritti umani sono più importanti che mai. Queste azioni mostrano alle vittime che non sono sole, anche quando affrontano i momenti più bui».
Il coraggio di chi si oppone - Nonostante mesi di proteste contro le leggi iraniane sul velo obbligatorio, scatenate dall'arresto arbitrario e dalla morte in custodia di Mahsa Jina Amini, le autorità hanno ripristinato la polizia morale e introdotto una serie di altre misure che privano dei loro diritti le donne e le ragazze che si oppongono al velo obbligatorio. Tra queste, la confisca delle auto e la negazione dell'accesso al lavoro, all'istruzione, all'assistenza sanitaria, ai servizi bancari e ai trasporti pubblici. Allo stesso tempo la autorità hanno perseguito e condannato le donne a pene detentive, multe e punizioni degradanti, come il lavaggio dei cadaveri.
«Utilizzano la pena di morte per reprimere le proteste» - Amnesty denuncia la repressione brutale da parte delle autorità di Teheran. Nell'ultimo anno, per infondere paura nella popolazione, le autorità hanno fatto sempre più spesso ricorso alla pena di morte come strumento di repressione politica. Sette uomini sono stati messi a morte arbitrariamente per presunti reati commessi in relazione alla rivolta, a seguito di processi farsa gravemente iniqui. Alcuni di loro sono stati messi a morte per presunti reati come il danneggiamento di proprietà pubbliche, altri invece sono stati condannati alla pena capitale in relazione alla morte, nell’ambito delle proteste, di rappresentanti delle forze di sicurezza.
L'appello dell'Ong - Amnesty International esorta tutti gli Stati a prendere in considerazione l'esercizio della giurisdizione universale e di altre giurisdizioni extraterritoriali in relazione ai crimini di diritto internazionale e ad altre gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità iraniane. «Questo include l'avvio di indagini penali dotate di risorse adeguate, volte a rivelare la verità sui crimini, a identificare le persone sospettate di essere responsabili, compresi i comandanti e altri superiori, e a emettere, in presenza di sufficienti prove ammissibili, mandati di arresto internazionali. Gli Stati dovrebbero inoltre contribuire a ottenere un giusto risarcimento per le vittime».