Sull'isola greca la situazione dei migranti è sempre più critica: «Cercavamo il paradiso, questo è un inferno»
LESBO - Sono esasperati i migranti di Lesbo dopo quattro notti passate all'addiaccio. E la rabbia è esplosa in protesta violenta di fronte alla prospettiva di finire in un campo analogo a quello di Moria, devastato dalle fiamme quattro giorni fa, che le autorità greche stanno approntando.
In centinaia hanno manifestato al grido di «libertà!» e «vogliamo lasciare Moria»: sono volate pietre contro il cordone di poliziotti, che hanno risposto con il lancio di gas lacrimogeni, e in molti sono stati portati via in ambulanza per problemi respiratori.
Tensione alle stelle anche tra migranti e abitanti dell'isola, ognuno con le sue ragioni. Nel campo di Moria, il più grande e degradato d'Europa, vivevano 13 mila persone, 4 mila delle quali bambini.
Da quattro giorni quasi tutti dormono per strada, nelle stazioni di servizio, nei campi e negli uliveti in condizioni igieniche disastrose e senza neppure quella prospettiva di asilo in altri Paesi europei che appiccando il fuoco al campo pensavano di ottenere.
I residenti di Lesbo non ne possono più di una situazione che non ha prospettive di fronte alla consueta latitanza dell'Europa, aggravata dal rischio di focolai di Covid difficili da gestire.
Ed è ai Paesi dell'Unione che il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres ha lanciato l'ennesimo appello: «È una tragedia immensa, a mio avviso l'unica soluzione è il trasferimento di questi rifugiati sul continente e spero che ci sia una solidarietà europea», ha detto ai microfoni dell'emittente televisiva TV5Monde.
Ricordando l'iniziativa tedesca e francese per l'accoglienza di 400 minori, Guterres ha chiamato a una «condivisione delle responsabilità all'interno di tutta l'Unione europea».
Il primo a farsi vivo è stato però il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, che ha chiarito in un video messaggio su Facebook che non intende accogliere nessuno, ripetendo il mantra degli aiuti in loco "per garantire una sistemazione umana".
Era stato il lockdown imposto al campo dopo che un residente somalo era risultato positivo al coronavirus a far scoppiare la rabbia dei migranti, già provati da ripetute restrizioni ed esasperati dalle durissime condizioni di vita.
Poi la notizia che 35 persone avevano contratto il Covid aveva seminato il panico. Ma gli incendi appiccati qua e là per protesta si sono trasformati in una trappola e l'Europa continua a essere una speranza sempre più vaga.
Sono in gran parte afghani ma anche siriani, congolesi, iraniani. E il campo con migliaia di tende che le autorità greche stanno montando a fianco dell'ammasso di detriti carbonizzati che è diventato quello di Moria è un'altra prigione a cielo aperto dalla quale sarà vietato uscire causa Covid e non solo.
«Quando ero nel mio paese, il Congo, e la gente parlava dell'Europa, pensavo ai diritti umani - ha detto alla Bcc Scotti Kele -. Ma da quello che vediamo qui, non credo che l'Europa esista più. Guardate le condizioni in cui si trovano i nostri bambini. Noi viviamo all'inferno».