Il giornalista ed esperto di politica Aldo Sofia spiega perché l'Occidente esce con le ossa rotte dall'avventura afghana
KABUL - «Afghanistan divoratore di imperi», dice un vecchio adagio, per dire che nessuna potenza straniera è mai riuscita a domarlo. Non l’impero inglese ai tempi della sua massima espansione; non quello sovietico, costretto a una ritirata militare che favorì il crollo dell’URSS; e nemmeno gli Stati Uniti, che oggi, con la riconquista della capitale afghana da parte dei talebani, subiscono una pesante sconfitta anche di immagine nel mondo. Umiliazione pari solo a quella subita in Vietnam, nel lontano ‘75.
Eppure siamo di fronte a una débâcle più che annunciata. Da almeno dieci anni, con la successione di tre presidenti (Obama, Trump, Biden) desiderosi di chiudere la più lunga guerra della storia americana (18 anni), costata 2.000 miliardi di dollari e 2.400 soldati uccisi (nulla in confronto alle centinaia di migliaia di vittime afghane, soprattutto civili) era chiaro quale sarebbe stato l’esito del conflitto. Se ne parlava poco, ma i talebani negli ultimi anni avevano già riconquistato provincia dopo provincia, e dopo negoziati segreti con gli USA evitano lo scontro frontale con i reparti internazionali. Così, non hanno avuto bisogno di una battaglia campale per sconfiggere un esercito nazionale sfarinatosi in poche settimane, ed entrare in una Kabul indifesa dopo la partenza dei contingenti stranieri.
Così, sventola la bandiera talebana sul palazzo presidenziale e rinasce l’Emirato islamico. Addirittura, gli ‘studenti coranici’ (il significato della parola ‘talebani’) lasciano tranquilli i soldati americani che blindano l’aeroporto internazionale. E si esprimono con moderazione, invitano i loro combattenti ad evitare vendette ed eccidi, parlano di voler formare un governo inclusivo, addirittura chiedono all’esercito nazionale del presidente Ghani in fuga di non gettare le armi e collaborare per far rispettare l’ordine. Svolta moderata? I primi a non crederci sono gli afghani già vittime del loro fanatismo religioso e della loro violenza; soprattutto le donne, costrette ad una sottomissione totale, arrivata al punto di escludere le bambine dalla scuola dopo tredicesimo anno di età.
Il paese rischia di diventare il nuovo regno del jihadismo più radicale, dove anche l’Isis potrebbe cercare una rivincita. L’Islam radicale vittorioso contro l’Occidente può rilanciare il radicalismo islamista anche su altri fronti, e pure gli attacchi terroristici in Europa. Di fronte a queste minacce non si esclude che l’ “ordine talebano” possa in qualche modo interessare a una comunità internazionale interessata alla stabilità nella regione. Così, i primi a riconoscere ufficialmente i vincitori sono Russia e Cina - con due regimi tutt’altro che amici del radicalismo islamico – nonché l’Iran sciita, che sembra ispirare le nuove leve talebane. Rimane spiazzato l’Occidente, che teme ora l’arrivo di nuovi profughi. E che dall’avventura afghana esce con le ossa rotte. A 20 anni dall’attacco dell’11 settembre – che l’intervento Usa/Nato doveva riscattare, svuotando anche i santuari di Al Qaeda – il bilancio è amaro. Soprattutto per l’America ora accusata, con il suo ritiro accelerato, di comportamento indegno nei confronti dei civili abbandonati alla volontà dei vincitori. Sconfitta militare, politica e morale.
Ma non c’è solo l’Afghanistan, c’è stato anche l’Irak. Dove un altro intervento militare in reazione alla tragedia delle torri gemelle ha favorito soprattutto il collasso di un fragile mosaico (sciiti, sunniti, curdi), la nascita dello Stato islamico, e l’accresciuta influenza dell’Iran sui governi di Bagdad.