Un nuovo rapporto di Amnesty international racconta le condizioni precarie in cui lavorano i giornalisti russi
MOSCA - Non ci sono più proteste. Basta uscire di casa con l'intenzione di opporsi alla politica, al governo, per essere arrestati. È la realtà che è andata creandosi in Russia negli ultimi dieci anni, con leggi che non tutelano più il diritto di manifestare, ma acconsentono a repressioni violente nei confronti dei cittadini che intendono dire la propria. E che, in particolare, impediscono ai giornalisti di riportare sulle pagine di cronaca gli eventi considerati "disturbanti" dal Cremlino.
Un nuovo rapporto di Amnesy international racconta le leggi, i giorni di carcere e le multe da pagare solo per aver esercitato il proprio lavoro.
Siamo nel 2012. Sono i giorni della Rivoluzione bianca. Attivisti e giornalisti sostengono che durante le elezioni presidenziali si siano verificati dei brogli. Centinaia di migliaia di persone si riuniscono in segno di protesta. Avvengono degli scontri con la polizia. In centinaia vengono arrestati, tra questi c'è anche Alexei Navalny.
Secondo il rapporto di Amnesty "Russia: You will be arrested anyway" - Verrai arrestato in ogni caso - il 2012 è stato un anno particolarmente decisivo nell'insorgere di nuove politiche oppressive in fatto di libertà di opinione e di espressione, anche se già dal 2002, con la prima salita al potere di Vladimir Putin, le autorità russe avevano già cominciato a limitare il diritto alla protesta pacifica e a penalizzare sempre più coloro che cercano di esercitarlo.
Nel corso degli ultimi anni, recita il testo, è stato creato un sistema legislativo ad hoc, che non guarda solo a chi protesta, ma interferisce anche nel lavoro di chi documenta i movimenti di protesta ed è la voce della libertà di espressione.
«La legge impone ai giornalisti che partecipano alle proteste di indossare credenziali chiaramente visibili di un rappresentante dei mass media». E la polizia avanza sempre più richieste tra cui il presentare lettere di incarico redazionale o passaporti da parte degli operatori dei media che seguono le assemblee pubbliche. Ai media viene anche "richiesto" di non partecipare alle proteste e diversi giornalisti sono stati arrestati prima, durante e dopo le manifestazioni di cui avevano o intendevano scrivere.
«In molti casi, gli arresti sono stati eseguiti con una forza eccessiva e illegale, che potrebbe equivalere a tortura e altri maltrattamenti». Una delle domande a cui si è sottoposti una volta arrestati si legge nel rapporto è: «Quando sei uscito di casa, non sapevi ci sarebbe stata una manifestazione?».
Dall'inizio della guerra d'invasione in Ucraina la situazione si è ulteriormente inasprita. Solo nel mese di febbraio, stando al sindacato dei giornalisti e dei lavoratori dei media decine di giornalisti sono stati arrestati e almeno sei hanno dovuto trascorrere un mese dietro le sbarre.
«Il sei marzo una giornalista di "It's my city" stava riprendendo una protesta in cui degli agenti di polizia stavano picchiando un manifestante utilizzando i manganelli. Un agente le ha detto di non ostacolare il loro lavoro e l'ha spintonata. Il video mostra chiaramente che si trovava abbastanza distante dal tafferuglio da non ostacolare i "lavori"». Sempre il sindacato scrive: «Le proteste sono finite. Non c'è più nulla da documentare».