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GUERRA IN UCRAINAIl rischio di un'escalation nucleare? «Un bluff»

12.01.23 - 21:35
Putin? «Per lui la Russia è in pericolo». Una tregua? «Ipotesi realistica». Tutti gli errori di questa guerra. Parla lo studioso Pietro Figuera
afp
Il rischio di un'escalation nucleare? «Un bluff»
Putin? «Per lui la Russia è in pericolo». Una tregua? «Ipotesi realistica». Tutti gli errori di questa guerra. Parla lo studioso Pietro Figuera

LUGANO - Sono passati oltre 320 giorni dall'inizio della guerra. Da allora assistiamo a un susseguirsi incessante di notizie di bombardamenti e morte, accuse e minacce, proposte di dialogo e sconfessioni. Il rischio è quello di anestetizzarsi al dolore e soprattutto di perdere la bussola all'interno di un conflitto che sta toccando tutti. Ci chiediamo allora a quale punto sia giunto il conflitto, se ci siano spiragli di pace o se la minacciata escalation (nucleare?) può realmente palesarsi sul tavolo delle eventualità. E ancora, una riflessione sulla figura di Putin, uomo e politico, cercando di capire il peso delle sue responsabilità e di quelle dell'occidente. E in tutto questo, quale il ruolo della Svizzera? Ne parliamo con uno dei massimi esperti, lo storico e studioso italiano Pietro Figuera, direttore di "Osservatorio Russia", oltre che collaboratore di "Rai Storia" e delle riviste di geopolitica "Domino" e "Limes".

L'Ue, dopo la condanna dell'invasione e le sanzioni di tipo economico-finanziario, ha deciso d'inviare armi e aiuti militari (dal 27 febbraio). È stato corretto, mettere (in apparenza) da parte la diplomazia, e partecipare indirettamente al conflitto, alla luce dell'attuale aggravamento
«Vi è una questione morale e una di opportunità. Sul piano morale, credo sia stato corretto supportare l’Ucraina fin dall’inizio. Non farlo, avrebbe significato tacere su una palese violazione del diritto alla sovranità di uno Stato, e più in generale del diritto internazionale. Sul piano dell’opportunità, restare a braccia conserte avrebbe significato inviare un segnale di grande debolezza a una Russia che aveva scommesso sulla nostra ignavia. Ovvero sulla preminenza che generalmente diamo ai nostri interessi economici rispetto a tutto il resto».

Però ci sono state parecchie critiche sull'invio di armi.
«Sarebbe stata preferibile una maggiore trasparenza e un maggior dibattito pubblico e parlamentare sull’invio di armi. E questo non avrebbe dovuto essere inquinato da strumentalizzazioni e scorciatoie retoriche: porre qualche (sensata) obiezione alle nostre politiche verso il conflitto non doveva portare a esser tacciati automaticamente di putinismo. Ho letto, incredulo, alcune pseudo-liste di proscrizione, base di partenza per una caccia alle streghe che ha visto troppi partecipanti, e persino alcuni colleghi. Non è stato un atteggiamento serio, degno di una democrazia matura».

Cos'altro non la convince?
«La nostra annosa ambivalenza. Se da una parte è giusto e doveroso supportare l’Ucraina, dall’altra viene da chiedersi perché non abbiamo fatto lo stesso con altri Paesi egualmente aggrediti, talvolta pure con brutalità maggiore. La cui unica colpa magari era quella di non essere europei, o più semplicemente di essere attaccati da nostri alleati. Al solito, ci facciamo scudo di una questione morale (pur enorme e indiscutibile) per nascondere la nostra ipocrisia. Non è benaltrismo, come qualcuno pigramente prova ad accusare, ma la constatazione di una forte e lineare ingiustizia. Che noi non vediamo, ma fuori dal nostro continente riconoscono benissimo».

Col senno di poi, la ritirata da Kherson dei russi oltre la riva est del fiume Dnepr (11 novembre) è stata strategica. A testimoniarlo è il pesante bombardamento russo a cui abbiamo assistito nelle passate settimane. È quindi stato azzardato "festeggiare" la ritirata, come si è visto fare sui media di tutto il mondo. Sembra dunque che il Cremlino possa avere in serbo sempre delle contromosse inaspettate.
«Spesso i commentatori saltano a conclusioni affrettate sull’andamento del conflitto. Capisco il motivo, ovvero l’esigenza giornalistica d'intravvedere improvvise svolte militari per attirare i lettori o i telespettatori. Del resto, pur con stile diverso, la stampa faceva lo stesso lavoro già ai tempi della Prima guerra mondiale. Non è però un buon servizio. La ritirata da Kherson è stata certamente strategica, ovvero ha risposto all’esigenza di ricompattamento di un fronte russo altrimenti sbilanciato. Una sconfitta, se non altro per i fiumi di risorse precedentemente impiegati, per mantenere le posizioni oltre il Dnepr».

Una sconfitta annunciata da tempo?
«Certo, e non preludeva a un crollo delle posizioni a sud, anzi serviva proprio a evitarlo, almeno nell’immediato. La regione di Kherson resta indispensabile per l’attuale strategia russa, sia per il controllo totale del Mar d’Azov sia per il collegamento terrestre con la Crimea. Non so se i russi avranno ancora le forze per tentare un nuovo sfondamento terrestre a Kherson città – i bombardamenti sono un’altra cosa, e sono relativamente facili a confronto – ma faranno di tutto per mantenere l’omonima regione».

Sia dal Cremlino che da Washington si fa riferimento al rischio di un’escalation nucleare, quale il rischio?
«Basso. Certo, siamo dinnanzi a una situazione senza precedenti, e le minacce retoriche di un ricorso all’arma atomica non aiutano. Ma dobbiamo essere coscienti di essere di fronte a un bluff: le armi nucleari sul campo non servirebbero (neanche nella loro versione "tattica" e più "soft"), e una guerra generalizzata di questo livello non è nell’interesse di nessuno, né a Mosca né a Washington. Anzi, tra le due potenze restano attivi dei canali riservati per la de-escalation, tra qualche anno forse sapremo qualcosa in più».

Si è parlato di strategia bellica assimilabile a una partita a scacchi, con al tavolo Putin, Zelensky, Biden e Ue. 
«Non amo le metafore scacchistiche per la geopolitica, specie dinnanzi alla tragedia di una guerra. Se proprio devo, comunque, credo che soltanto Putin e Biden stiano giocando una partita definibile come tale. Il primo è all’angolo per aver commesso alcuni errori esiziali già lo scorso febbraio, il secondo è già sicuro della propria vittoria, comunque vadano le cose. Zelensky è situato in un livello inevitabilmente inferiore. Nonostante gli indubbi successi, resta più vittima che artefice degli eventi e gran parte della sua autonomia si basa sull’appoggio politico e militare occidentale. Almeno, però, è capace di un’elaborazione strategica propria: dalla primavera all’autunno la sua retorica contro Mosca si è trasformata in modo notevole. L’UE invece non è un attore, ma la somma delle sue parti contraenti. Sull’Ucraina ha ritrovato l’unità ma al tempo stesso ha rinunciato a un sincero dibattito interno. Come al solito, riesce a muoversi compatta solo quando un egemone esterno (gli Stati Uniti) detta la linea, anche a scapito di qualche suo interesse. Ne è prova la sua subalternità sul piano energetico: al price cap verso la Russia non è corrisposto un atteggiamento critico verso chi ha speculato sulla vendita di gas, petrolio e derivati. A Washington e a Oslo (ma anche alla borsa di Amsterdam) brindano».

Ci si chiede poi se l'atteggiamento "indirettamente interventista" dell'Ue e degli Usa sia stata la strada giusta per ritrovare il dialogo con i russi, o forse un modo sbagliato per ricucire con Putin.
«Chiaramente l’invio di armi a Kiev non è propedeutico al dialogo con Mosca, né è mai stato immaginato come tale. Ci sono forti motivazioni dietro il sostegno all’Ucraina, tra cui quelle che ho esposto all’inizio. Tuttavia non deve sparire la via del compromesso con la Russia, inteso in senso generale. Se a Washington si pensa già a trattare e a Bruxelles tale idea non la si prende neanche in considerazione, qualche domanda me la porrei. L’UE non ha mai provato, e forse nemmeno pensato, a interpretare un ruolo simile a quello giocato dalla Turchia. Non sarebbe un assist a Putin, se interpretato bene: Ankara non ha mai riconosciuto nemmeno l’annessione della Crimea. Mancano coraggio, responsabilità e immaginazione».

Quale, secondo lei, l'immagine del leader del Cremlino oggi?
«Su Putin come persona sono stati scritti molti saggi, di cui alcuni autorevoli. Non credo di aggiungere qualcosa di nuovo se dico che il presidente russo ha risentito gli effetti dell’isolamento e dell’invecchiamento al potere. Con gli anni certe convinzioni si radicano, non basta certo qualche telefonata di Macron a rimetterle in discussione. Credo che Putin sia sinceramente convinto del fatto che la Russia sia in pericolo, e purtroppo col tempo quest’idea non potrà che trovare conferme, anche se buona parte delle responsabilità in tal senso ormai ricade su lui stesso».

È vero che gli appelli di Putin alla risoluzione delle questioni legate al Donbass sono stati colpevolmente ignorati da politica e media? 
«Si doveva trovare un dialogo prima dello scoppio della guerra, adesso è quasi impossibile. L’ultimatum del Cremlino di fine 2021 è stato sottovalutato da qualche governo inconsapevole, e volutamente ignorato da chi invece sapeva cosa poteva succedere e non ha fatto nulla per impedirlo. Le radici del conflitto sono comunque di molto anteriori, e c’entrano solo relativamente col Donbass, spesso usato in modo strumentale. Per certi versi era solo questione di tempo, e le dinamiche di Donetsk e Lugansk così come dei governi succedutisi a Kiev hanno solo accelerato il corso degli eventi».

A cosa si riferisce?
«Agli errori commessi un po’ dappertutto nei confronti di Mosca: l’approccio liberista degli anni Novanta, l’allargamento troppo precipitoso dell’Alleanza Atlantica, i passi falsi in Iraq, Libia e Siria, certe dinamiche seguite a Euromaidan, l’abbandono statunitense dell’INF. Molte di queste mosse, se non tutte, sono state viste alla stregua di un tradimento. Anche la Russia naturalmente ha le sue gravi responsabilità anteriori al conflitto. A partire dalla sconfessione del memorandum di Budapest, già dal 2014 triste carta straccia. Con ciò non voglio e non posso ripartire equamente le colpe. Una guerra come questa ha responsabilità immediate così grandi da far impallidire quelle precedenti dell’altra sponda (Ucraina compresa). Chiamatela pure reazione sproporzionata. Sarebbe altrimenti come mettere sullo stesso piatto le condizioni inique di Versailles del 1919 e l’invasione tedesca della Polonia del 1939: il nesso causale c’è, ma è meglio che se ne occupino gli storici. A fatti sedimentati, e dando il giusto peso alle cose».

Come giudica invece la posizione della Svizzera, che da una parte ha aderito alle sanzioni economiche, dall'altra ha vietato alla Germania l'invio in Ucraina di munizioni svizzere.
«Mi sembra che la Svizzera stia semplicemente perseguendo il suo tradizionale indirizzo di politica estera. Adattandosi ai tempi, quindi partecipando alle sanzioni collettive europee, ma non rinunciando alle opportunità derivanti dalle triangolazioni con Mosca. Mi riferisco alle materie prime vendute attraverso la Svizzera - l’80% del totale nei primi mesi di guerra, secondo il Wall Street Journal (in un articolo dello scorso luglio, Ndr) - e ai depositi bancari dei clienti russi nella Confederazione. Per volumi e diffusione di conti correnti e proprietà degli oligarchi, la Svizzera ha un valore equiparabile a Cipro nelle equazioni del Cremlino, con il vantaggio di non appartenere all’UE e quindi di non dover rispondere in modo diretto delle sue (in)azioni. Nicosia subisce le pressioni di Londra, che mantiene anche una certa presenza militare in loco, e deve fare i conti con una serie di tensioni geopolitiche irrisolte. Berna non ha nulla di tutto ciò, anche se di recente è trapelata una certa insoddisfazione da parte degli apparati Usa. Credo che la Svizzera continuerà a mantenere la sua posizione senza grandi sorprese, a meno di nuove e decisive escalation nell’ambito del conflitto».

Essere oggi pacifisti cosa significa? Si può conciliare il pacifismo con l'invio di armi e di equipaggiamenti?
«Non appartengo a quella categoria di pacifismo che si oppone alla guerra tout court, ignorandone le sfumature e le responsabilità. Senza arrivare agli scivolosi parallelismi con la nostra guerra partigiana, fin troppo strumentalizzata, ritengo che in certe situazioni bisogna superare gli orizzonti di stretta neutralità e "sporcarsi" le mani con aiuti concreti. L’importante è mantenere il controllo del processo, render conto di ciò che si invia, essere pronti a rientrare in una forma di dialogo col "nemico", mantenere una certa autonomia strategica nei confronti dei nostri alleati maggiori. A questo proposito, adotterei il modello di comportamento francese, o come minimo quello tedesco, nell’approccio alla guerra e nell’adesione all’Alleanza Atlantica».

La maggior parte dell'opinione pubblica è poco propensa a criticare l'Ucraina
«È importante rimanere ancorati coi piedi alla realtà. Ed essere disposti anche a criticare Kiev, nei modi e nei momenti giusti. Non è che le violazioni ucraine degli accordi di Minsk, ad esempio, siano sparite con un colpo di spugna il 24 febbraio. Semplicemente, e giustamente, sono passate in secondo piano rispetto a una violazione ben più grande e grave, che è doveroso contrastare. Vorrei vivere in un Paese in cui queste semplici riflessioni siano considerate la normalità, e non qualcosa da guardare con sospetto. Mi rendo però conto che qualcuno ha approfittato dell’oggettiva complessità della situazione per sfornare fantasiosi teoremi, e si sia ormai allergici pure a questo».

L'Ucraina punta a un summit di pace a fine febbraio mentre, al contrario, Mosca nega la disponibilità di Kiev alla negoziazione. 
«Il futuro è ancora tutto da scrivere, ma non vedo nulla di roseo. Mostrarsi disponibili al negoziato, e ritrattare pochi giorni o anche solo ore dopo, rientra purtroppo nel solito gioco delle parti. Aspettiamoci tanti balletti di questo tipo, da entrambi i contendenti. Costruire la pace è sempre molto più difficile di avviare una guerra: serve una totale dedizione alla causa, incurante dei malumori interni. In un conflitto a somma zero come questo, il compito è ai limiti dell’impossibile».

Secondo lei, tra Putin e Zelensky, come finirà?
«Se accettasse definitivamente gli attuali confini, condizione richiesta dai russi, Zelensky potrebbe dire addio alla sua carriera politica (come minimo), e proprio nel momento in cui ne aveva consacrato il successo. Viceversa, se si ritirasse ai confini pre-conflitto, o addirittura pre-annessione della Crimea (con tanto di congrue riparazioni di guerra), Putin non andrebbe incontro soltanto a un’umiliazione. Perderebbe anche pezzi di Stato, intesi sia come apparati sia come regioni pronte alla secessione. Sembra fantapolitica ma è storia già vista».

Sarebbe molto più realistica, dunque, una tregua?
«Certo, una tregua che partirebbe dalle posizioni consolidate sul campo, magari appesantite da mesi di rinforzi, costruzioni di trincee e fortificazioni invernali. E che implicitamente conterrebbe i semi di un nuovo scontro: come abbiamo visto, gli ucraini in particolare non riuscirebbero ad accettare l’attuale stato di cose, se non nella promessa di una sua provvisorietà. Rispettare quest’ultima, tuttavia, non sarebbe facile: senza un esplicito appoggio occidentale – che non arriverebbe, salvo fughe in avanti di qualche Paese est-europeo – Kiev non avrebbe i mezzi per riprendere da sola la guerra. Putin lo sa e per questo probabilmente si accontenterebbe della tregua, al modico prezzo dell’ennesimo conflitto congelato ai confini del suo instabile impero».

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COMMENTI
 

Tiki8855 1 anno fa su tio
Ottima analisi che verrà condivisa positivamente da molti lettori!

Milite Ignoto 1 anno fa su tio
Uno degli articoli più interessanti degli ultimi 6 mesi e complimentoni allo studioso per l’analisi accurata e neutrale. continuerei a lasciar parlare gente così piuttosto che dover leggere altri commenti

demos 1 anno fa su tio
Infatti dove é la democrazia sulle questioni importanti?!...i popoli dei vari stati europei non hanno avuto nessuna voce in capitolo, chi comanda manda soldi armi ecc senza nessun consenso popolare, anzi molti paesi dai sondaggi raccolti dicono di essere contro l invio di armi ( di cui buona parte finisce al mercato nero per altri paesi...non cé nessuna tracciabilità curiosamente ...) Le ditte di armamenti . Vogliamo parlare di bandera considerato ancora oggi un eroe nazionale con tanto di monumento?!...o delle armi europee finite in mano ai nazisti azov( considerati eroi del popolo) ?!.. E vogliamo parlare del fatto che nessuno abbia combattuto una guerra di sanzioni contro l america per tutti gli stati che ha invaso e distrutto...?!..vi ricordo che qualche tempo fa gli americani sono scappati dall' Afghanistan dopo 20anni!!!!...e nessuna sanzione ...quindi loro decidono tutto , l Europa schiava esegue. E vogliono parlare di democrazia...fanno ridere, come l altro pagliaccio che da 8 anni ha continuato a massacrare persone con le sue milizie naziste integrate nell' esercito regolare, ed ora sembra diventato l eroe della democrazia spalleggiato da usa e Europa...wow.

APR-DRONE 1 anno fa su tio
Risposta a demos
Finalemnte si legge un articolo SERIO. @Demos concordo con il tuo pensiero. Tanto che da anni mi domando quando gli USA lasceranno per sempre il continente Europeo dal quale, come una AMEBA o un CANCRO, ci stanno ROVINANDO da dentro. Ricaciarli nei loro territori continentali e che si occupino dei loro IMMENSI problmei interni. A lungo andare l'assetto mondiale si stà rovesciando e in un futuro prossimo la/le monente di riferimento saranno Yen e Rublo non certo il FALLIMENTARE DOLLARO.

Ape67 1 anno fa su tio
Complimenti, finalmente una giusta lettura della situazione.

leobm 1 anno fa su tio
Un interessantissimo e buon intervista. Molta saggezza traspare da queste parole
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