L'ex procuratore Giancarlo Capaldo, che indagò per sette anni sulla scomparsa di Emanuela Orlandi: «È finita in un gioco più grande di lei»
CITTÀ DEL VATICANO - La decisione del Vaticano di aprire un'inchiesta sulla scomparsa - a quasi 40 anni di distanza - di Emanuela Orlandi, ha animato una fiammata di attenzione sul caso (in parte ridestata, negli ultimi mesi, anche da una docu-serie di Netflix). E alcuni tra i protagonisti, a loro malgrado, di questa oscura storia sono tornati a parlarne. Dal fratello Pietro, all'avvocato della famiglia, Laura Sgrò, fino a Giancarlo Capaldo, l'ex procuratore aggiunto che indagò sulla vicenda per sette anni.
In un'intervista al quotidiano italiano La Stampa, il magistrato romano afferma che, nonostante sia «passato molto tempo» dai fatti - la scomparsa dell'allora 15enne vaticana risale, lo ricordiamo, al 22 giugno 1983 -, «all'interno del Vaticano vi siano ancora persone che conoscono la verità». E quella conoscenza, prosegue Capaldo, «con particolari dettagli, per taluni è stata decisiva nella carriera». Detto questo, il fatto che dall'interno delle mura leonine si sia deciso di aprire per la prima volta (e spontaneamente) un'inchiesta «è un segnale forte».
Ma si arriverà a quella verità che per quattro decenni è rimasta inafferrabile? «Me lo auguro, ma credo sia molto difficile ancora per molti anni», risponde il magistrato, che nel merito di quanto accaduto a Emanuela è convinto che la giovane sia stata inghiottita «con l'ingenuità dei suoi quindici anni, in un gioco troppo più grande di lei». Concretamente, prosegue, «ritengo che sia stata sequestrata a fini di ricatto e sia stata riconsegnata da De Pedis (Enrico, detto "Renatino", storico boss della fazione testaccina della banda della Magliana, ndr.) a qualcuno inviato dal Vaticano. Temo che, successivamente, la povera Emanuela sia morta».
Vaticano vittima o artefice di questa vicenda, quindi? «Come spesso accade nella vita, la vittima è anche carnefice: questo potrebbe essere accaduto anche al Vaticano», afferma Capaldo.
Le chat, le carte su Emanuela e «i tombaroli»
E poi ci sono le chat. Ne ha parlato ieri l'avvocato Sgrò, ospite di Bruno Vespa nel salotto serale di "Porta a Porta", sui Rai 1. Chat di WhatsApp che contengono uno «scambio di messaggi» risalente al 2014 «tra due persone molto vicine al papa», che «avevano un rapporto diretto e personale con lui, che interagivano costantemente con lui. Persone a lui molto vicine».
In quei messaggi, «i due parlavano della presenza di documenti che riguardavano Emanuela, come di un problema che andava risolto».
Si parla «di una presunta tomba, e di tombaroli che vanno pagati, si capisce che non vogliono coinvolgere il capo della gendarmeria, e compare il nome di Abril (il cardinale, ndr). Abbiamo anche qualche audio di una delle due persone, forse anche di tutti e due. Noi sappiamo nome e cognome, le due persone sono vive e vegete, ma non so se lavorano ancora in Vaticano». Da qui la richiesta rivolta da Sgrò al promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi: «Ci chiami quanto prima per fornire loro non solo questo pezzo del puzzle ma anche altri pezzi».