Il boss trapanese, rispondendo al gip Alfredo Montalto, ha preso le distanze dall'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo
L'AQUILA - Matteo Messina Denaro se ne tira fuori. Non dalla vicenda del sequestro - del quale ha, sebbene indirettamente, lasciato intendere le sua responsabilità -, quanto dalla macabra esecuzione del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del "pentito" Santino.
La sua fine arrivò dopo un calvario lungo più di due anni, dal novembre del 1993 al gennaio del 1996. Venticinque mesi trascorsi tra un covo e l'altro, da Campobello di Mazara, nel feudo, appunto, dei Messina Denaro, fino al casolare di San Giuseppe Jato, terra del boss Giovanni Brusca. Ed è su quest'ultimo che il padrino trapanese, rispondendo alle domande del giudice per le indagini preliminari Alfredo Montalto, ha scaricato ogni colpa.
Da quell'orrore, l'ex fantasma di Castelvetrano prende le distanze. «Non ho dato l'ordine di uccidere il piccolo Di Matteo». Queste le parole che avrebbe pronunciato davanti al gip, riportate da LiveSicilia.
Nel parlare di Giuseppe la voce del boss - che abbiamo imparato a conoscere prima da un vecchio nastro e, dopo l'arresto, dalla raffica di messaggi vocali privati che hanno trovato ampia diffusione attraverso gli organi di stampa della vicina Penisola e hanno svelato l'indecifrabile allentarsi di una latitanza che per quasi tre decenni era stata a prova di ogni spiffero - cambia. Riconosce, a suo modo, la paternità del primo di quei 779 giorni. Non dell'ultimo. Quello in cui Giuseppe Di Matteo, a poco più di una settimana dal giorno in cui avrebbe compiuto 15 anni e con la sola "colpa" di essere figlio di suo padre, fu prima strangolato e poi sciolto nell'acido.