Sono le parole degli 007: «Lo abbiamo distrutto». Il ricercatore italiano fu ucciso nel gennaio del 2016.
ROMA - «Lo abbiamo fatto a pezzi, lo abbiamo distrutto». Parole terribili e drammatiche che arrivano da uno degli autori delle torture e dalla morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso al Cairo nel gennaio del 2016.
Il racconto di quanto avvenne in quei giorni nella capitale egiziana è stato fornito, nel corso dell'udienza del processo a carico di quattro uomini degli apparati di sicurezza egiziani, da un testimone sentito in modalità protetta. Un cittadino keniota che nel settembre del 2017 ascoltò in un ristorante di Nairobi (Kenya) il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif, uno degli imputati, rivelare cosa venne fatto a Regeni.
«Nel nostro paese abbiamo avuto il caso di un accademico italiano - carpì il teste dalla bocca di Sharif - che pensavamo fosse della Cia (i servizi segreti civili degli Usa) ma anche del Mossad (il servizio segreto israeliano focalizzato sulle operazioni all'estero). Era un problema, perché era popolare fra la gente comune. Finalmente l'abbiamo preso: lo abbiamo fatto a pezzi, lo abbiamo distrutto. Io l'ho colpito».
Il teste, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, ha ricostruito dettagliatamente quanto avvenuto quel giorno nel ristorante. All'epoca dei fatti il cittadino keniota faceva il venditore di libri e si trovava in quel locale per incontrare un professore dell'università di Nairobi che voleva acquistare alcuni volumi. Sentì due uomini accanto a lui che parlavano.
«Erano seduti un funzionario della sicurezza keniota e un egiziano, sceso poco prima da un veicolo diplomatico egiziano - ha detto davanti ai giudici della Corte d'assise della capitale. Erano a distanza di circa due metri: non c'erano tavoli fra noi. Hanno iniziato a parlare delle elezioni presidenziali in Kenya, parlavano in inglese. Parlavano di tensioni e scontri con la polizia dopo il voto contro la legittimità delle operazioni di voto e di vittime che c'erano state. Criticavano l'Unione europea che manifestava solidarietà con le proteste. Il funzionario diceva che bisognava restare fermi e che senza ingerenze straniere le forze di polizia avrebbero potuto reprimere meglio le proteste».
Un dialogo andato avanti per 45 minuti. Ad un certo punto il teste sentì l'egiziano affermare: «l'Unione europea è un problema grande per noi in Egitto», per poi aggiungere che «nel nostro paese abbiamo avuto il caso di un accademico italiano che pensavamo fosse della Cia o del Mossad. Questa persona era un problema perché era popolare fra la gente comune, interagiva con la popolazione nei mercati».
Un problema che andava «risolto». «Lui disse - aggiunge il teste - che presero Giulio. 'Lo abbiamo picchiato e 'io l'ho colpito. Lo abbiamo fatto a pezzi, lo abbiamo distrutto'».
Dal canto loro i giudici hanno dato il via libera all'acquisizione di una serie di testimonianze di cittadini egiziani che per motivi di sicurezza non potranno venire a Roma. Nell'ordinanza la corte d'assise scrive che sono «numerosi i fatti obiettivi che documentano come la situazione dei diritti civili in Egitto sia ampiamente compromessa».
I giudici citano rapporti delle organizzazioni non governative (ong) di difesa dei diritti umani Amnesty International e Human Rights Watch del 2024, così come pronunciamenti del parlamento europeo e dell'alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Viene citata anche la «scheda 2024 del Ministero degli esteri italiano che conclude nel senso che 'l'Egitto è un paese sicuro. Si ritengono, tuttavia, necessarie eccezioni per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani o per coloro che possono ricadere nei motivi di persecuzione, vale a dire per motivi di opinione politica (...) indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti».