Lo anticipa il giudice responsabile del caso pornostar
WASHINGTON - Donald Trump rischia di insediarsi alla Casa Bianca come primo presidente "felon", criminale. Salvo sorprese, legate a eventuali impugnazioni.
Juan Merchan, il giudice del caso pornostar, ha infatti deciso che per il tycoon deve essere emessa la sentenza dopo che in maggio una giuria lo ha ritenuto colpevole di tutti i 34 capi di imputazione e ha fissato come data il 10 gennaio, dieci giorni prima del suo giuramento. Il magistrato ha stabilito che Trump deve apparire in tribunale, ma ha anticipato di non essere incline a comminare una pena carceraria o che limiti la libertà del presidente eletto. Merchan ha respinto così l'ennesima istanza di archiviazione che i difensori di Trump avevano presentato sostenendo che il procedimento avrebbe ostacolato la sua capacità di governare. Accantonare il verdetto della giuria, ha scritto, «minerebbe lo stato di diritto in modo incommensurabile». «Lo status dell'imputato come presidente eletto non richiede l'applicazione drastica e "rara" dell'autorità (del tribunale) di accogliere la mozione (di archiviazione)», ha argomentato.
Inizialmente Trump avrebbe dovuto essere condannato il 26 novembre, ma Merchan aveva posticipato la sentenza a tempo indeterminato dopo la vittoria elettorale di The Donald. Il pm di Manhattan Alvin Bragg si era opposto al colpo di spugna e aveva suggerito diverse opzioni per Merchan, tra cui rinviare la condanna alla fine della presidenza, comminare una sentenza senza galera o chiudere il caso annotando però la decisione della giuria.
In precedenza il giudice aveva respinto un'istanza di archiviazione che gli avvocati del tycoon avevano presentato alla luce della sentenza con cui la Corte suprema ha stabilito l'immunità per le «azioni ufficiali» intraprese dal presidente nell'esercizio delle sue funzioni. Sposando la tesi dell'accusa, Merchan aveva scritto nel suo provvedimento che le prove mostrate al processo riguardano «completamente una condotta non ufficiale» e ha ricordato che la stessa Corte suprema nella sua sentenza riconosce che «non tutto quello che il presidente fa è ufficiale», neppure se agisce dallo Studio Ovale.