Il premier mantiene la linea dura mentre il suo gradimento si sfarina. Alcuni ministri disertano il meeting di governo. E Washington pressa
GERUSALEMME / GAZA - Sono trascorsi ormai tre mesi dall'inizio della guerra tra Israele e Hamas, incendiata dalla strage avvenuta lo scorso 7 ottobre. E ogni giorno che passa vede il governo presieduto da Benjamin Netanyahu diventare sempre più debole. Il gradimento della popolazione verso il premier si sta, letteralmente, sfarinando, anch'esso vittima di (ma non solo) questi 90 e più giorni di conflitto. Lo dicono i sondaggi e lo dicono, con voce tonante, le decine di migliaia di persone che negli ultimi giorni sono scese in strada a Tel Aviv, da cui ha iniziato a levarsi, con sempre maggiore insistenza, la richiesta di nuove elezioni.
Come accennato qualche riga fa, a parlare sono i sondaggi. L'ultimo di questi è stato pubblicato la notte scorsa da Kan, l'emittente pubblica israeliana, e traccia una scenario piuttosto eloquente: se avessero luogo nuove elezioni oggi, il partito di Unità Nazionale guidato da Benny Gantz andrebbe quasi a triplicare i suoi seggi - da 12 a 33 - mentre il Likud di Netanyahu vedrebbe la sua maggioranza erosa, crollando da 32 seggi attuali fino a quota 20. Numeri impietosi ma che, va detto, non sorprendono. E non solo a fronte a questi tre mesi di violentissima guerra, ma anche a quelli che l'hanno preceduta e - tra lacune, errori e fragilità - le hanno consentito di esplodere.
Pressing su Netanyahu, da dentro e da fuori
In altre parole, il piatto che fa pendere la bilancia a sfavore di Netanyahu appare colmo. Al punto che già all'alba della guerra con Hamas, il futuro politico di Netanyahu, come sottolineato a più riprese da analisti e osservatori, sembrava condividere il medesimo orizzonte di questo conflitto: finito uno, finito l'altro. Lo aveva detto lo storico israeliano Tom Segev in un'intervista al Corriere della Sera a metà ottobre - «Netanyahu è politicamente morto»; lo aveva sottolineato il politologo israeliano Reuven Hazan all'Huffington Post - «esattamente il minuto dopo la fine della guerra, anche se dovesse rivelarsi lunga, l'opinione pubblica e l'opposizione gli presenteranno il conto»; lo ha ribadito nei giorni scorsi Ferdinando Nelli Feroci, già ambasciatore e presidente dell'Istituto Affari Internazionali all'Unità - «finita la guerra sarà finito anche Netanyahu» -, al quotidiano italiano L'Unità.
E il "giorno dopo" la guerra è un nodo centrale della crisi che il suo governo sta attraversando. Le pressioni su Netanyahu non sono infatti solamente di natura esogena ma si stanno facendo sentire all'interno della stessa coalizione, con le crepe che ora si palesano fino in superficie, là dove tutti possono vederle. Per questo motivo, a fine dicembre, il premier aveva cancellato l'incontro del gabinetto di guerra che avrebbe dovuto discutere proprio del giorno dopo, cedendo al pressing dei partner di governo. E si arriva così a queste ultime ore, con ben tre ministri - fra i quali anche Gantz - che hanno disertato l'ultimo meeting del gabinetto di guerra.
Infine, c'è il pressing degli alleati internazionali. Su tutti, quello di Washington. Il segretario di Stato americano Antony Blinken, è nuovamente in visita ufficiale in Medio Oriente e ha ribadito, in un incontro ad Abu Dhabi con il presidente emiratino Mohamed Bin Zayed, l'impegno degli Stati Uniti per «la creazione di uno stato palestinese indipendente». E in quello che sarà il suo quinto incontro con l'esecutivo israeliano dal 7 ottobre scorso, nelle prossime ore, Blinken ricalcherà con ogni probabilità quella linea su cui la Casa Bianca insiste da settimane: la fine della "fase militare" nella Striscia di Gaza e il passaggio a una nuova fase, fatta di attacchi mirati sulle personalità di vertice di Hamas, così da ridurre i pericoli per la popolazione civile e consentire un maggiore accesso ai soccorsi e agli aiuti umanitari.