Le sovvenzioni statali rendono gli istituti di credito in Svizzera praticamente invulnerabili. La parola all'economista Adriel Jost.
ZURIGO - Le banche sono ormai al di fuori dell'economia di mercato: non possono fare bancarotta e godono di fatto di sovvenzioni statali per decine di miliardi di franchi all'anno in Svizzera. Lo sostiene l'economista Adriel Jost, che ha anche parole dure sul rapporto degli esperti della Confederazione: fatto così poteva essere scritto direttamente dall'associazione dei banchieri, dice, tanto più che le proposte avanzate rendono il sistema addirittura più insicuro.
Si fa finta che gli istituti finanziari siano normali aziende inserite in un'economia di mercato, ma non così, afferma l'esperto - a lungo attivo presso la Banca nazionale svizzera (BNS) - in un'intervista pubblicata oggi dalla Neue Zürcher Zeitung (NZZ). «Lo si può vedere dal fatto che non vengono lasciate fallire: questo viola già un elemento fondamentale dell'economia di mercato, le aziende in difficoltà devono poter fallire».
«Le banche possono finanziarsi a costi più bassi rispetto alle altre imprese perché lo stato non le lascia cadere», argomenta Jost. «Da un lato, ricevono i nostri depositi a condizioni molto favorevoli, perché se i clienti ritirano improvvisamente molto denaro la banca centrale li aiuta con la liquidità. D'altra parte una banca può anche assumere capitale terzi a lungo termine a condizioni migliori, perché i suoi creditori sanno che difficilmente perderanno denaro in caso di salvataggio».
L'ex capo-economista della società di consulenza Wellershoff & Partners stima che il vantaggio di finanziamento degli istituti rispetto alle altre imprese sia di circa un punto percentuale. «Poiché il sistema bancario elvetico ha passività per oltre 3000 miliardi di franchi, questo equivale a una sovvenzione di 30 miliardi di franchi all'anno».
Quindi - chiedono i giornalisti della NZZ - ciascun abitante del paese paga ogni anno 3400 franchi per le banche? «Si tratta di un sussidio implicito, quindi non c'è flusso di denaro», risponde l'intervistato. «I costi per il contribuente si riflettono principalmente nelle crisi che si ripetono ogni pochi anni, in cui il contribuente è gravato dai rischi quando una banca viene salvata».
Nel 2008 è stata salvata UBS, nel 2023 Credit Suisse, fra 15 anni saremo allo stesso punto? «Gli incentivi sono fissati in modo tale che la probabilità è alta. Si parla di sovvenzioni implicite. Questo apre la porta a un'assunzione di rischio esagerata».
Non dovremmo rassegnarci a queste crisi, visto che in Svizzera il contribuente ci ha finora guadagnato, sia con UBS che con CS? «Bisogna soppesare i vantaggi di una simile politica industriale per il settore bancario con i costi», osserva Jost. «Non dobbiamo farci abbagliare da due casi specifici che si sono rivelati positivi per il contribuente svizzero: l'Irlanda o l'Islanda sono casi in cui interi paesi sono stati scossi da crisi bancarie».
Anche il gruppo di esperti sulla stabilità bancaria nominato dal Consiglio federale, che ha presentato il suo rapporto la scorsa settimana, appare sprovveduto e privo di idee. «L'intera vicenda mi ricorda il detto di Albert Einstein: la definizione di follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi. Si pensa solo all'interno di un quadro molto ristretto. Si fanno piccoli aggiustamenti, ma di scarso effetto».
La soluzione dovrebbe passare per un rafforzamento dei fondi propri. «Se una banca disponesse di una quantità significativamente maggiore di capitale proprio avrebbe un cuscinetto più consistente in caso di crisi. È almeno altrettanto importante che una banca disponga di garanzie sufficienti per poter attingere a liquidità dalla banca centrale in caso di emergenza. In questo modo, si può prevenire una corsa agli sportelli senza che lo stato debba assumersi i rischi».
Attualmente, le banche devono detenere in bilancio solo circa 5 franchi su 100 come vero capitale proprio, cento anni or sono erano 30 franchi: si deve tornare a quel livello? «La questione principale è quanto si è coraggiosi e cosa si vuole. Si vuole che il sussidio implicito scompaia? Allora non si deve più permettere alle banche di indebitarsi eccessivamente. Pertanto, si dovrebbe andare nella direzione di un rapporto di capitale proprio del 30%, che corrisponde anche al limite inferiore delle aziende sane nel resto dell'economia».
«Mi rendo anche conto che si tratta di un'utopia, perché ne siamo molto lontani», aggiunge Jost. «È come se la cosa venisse da un altro mondo. Ma se non andiamo in quest'altro mondo, come società dovremo continuare a sostenere rischi molto grandi». Per la nuova UBS il fabbisogno sarebbe di 338 miliardi di franchi, per le altre grandi banche un numero di miliardi a due cifre. «Si dovrebbero concedere alle banche periodi di transizione molto lunghi, di 30 anni o più: questo dimostra quanto le banche siano lontane dalle condizioni dell'economia di mercato».
Nei 30 anni in questione - osservano i cronisti della NZZ - il sistema bancario svizzero dovrebbe raccogliere 22 miliardi di franchi di capitale all'anno: non appare realistico. «Sì, ma bisogna fissare un obiettivo e poi muoversi in quella direzione. È meglio che non fare nulla e dire che l'obiettivo è comunque troppo lontano. Sono ipotizzabili anche obiettivi intermedi, o l'applicazione di tali regole solo a banche molto grandi, in particolare UBS».
Il gruppo di esperti non è però d'accordo: ritiene che non sia necessario un ulteriore inasprimento delle norme sull'adeguatezza patrimoniale. «Questa relazione di esperti avrebbe potuto essere redatta anche dall'Associazione dei svizzera dei banchieri, e sarebbe stata più economica per il contribuente», taglia corto Jost. «Il rapporto chiede di facilitare l'accesso alla liquidità chiedendo alla BNS di imporre regole meno rigide in materia di garanzie. Non viene fatto alcun tentativo di ridurre gli incentivi ad assumere rischi a spese dello stato. Né si lascia inalterato il debito ad alto rischio. Vorrei ricordare che attualmente le banche svizzere sono indebitate in media al 93%, mentre il totale delle società quotate in borsa è del 47%».
Lo specialista dice di non spiegarsi l'impostazione del rapporto e di esserne «esterrefatto». «Ciò che delude è la mancanza di creatività: i gruppo si perde nei dettagli e trascura il quadro generale. Si guardano gli alberi e non si vede più la foresta». Attuare le indicazioni di questi specialisti non porterebbe a nulla. «Al contrario, il sistema diventerebbe più insicuro: le proposte sono controproducenti. Si aumentano le sovvenzioni alle banche e si cerca cercate di ritoccare il regime too big to fail, anche se è stato dimostrato che questo regime non funziona».
La discussione riguarda anche aspetti intangibili. «Per esempio, l'orgoglio di avere una banca importante. Non è solo UBS a fare leva su questo orgoglio. Anch'io sono orgoglioso. Mia nonna è stata la prima apprendista dell'ex Società di Banca Svizzera a Zurigo. L'orgoglio non è fondamentalmente sbagliato: ma porta a conclusioni errate». Anche i ministri delle finanze, i regolatori e i banchieri centrali preferiscono essere responsabili di una grande piazza finanziaria piuttosto che di una piccola: si è più importanti.
Secondo Jost vi è quindi il rischio che, per motivi di orgoglio, la Svizzera tenda a una politica industriale in in cui la dimensione in sé è considerata auspicabile. «Ma le autorità non dovrebbero essere contrarie alle grandi banche in linea di principio. Anch'io non sono contro le grandi banche in sé, ma solo contro le grandi banche che sono massicciamente sovvenzionate dal contribuente», conclude l'esperto.