Con Dr. Dre, Snoop Dogg, Eminem e Kendrick Lamar; l'Halftime Show 2022 è entrato nella storia dalla porta principale
INGLEWOOD - A posteriori possiamo dirlo: la città di Los Angeles il suo personale "Super Bowl" lo aveva già vinto ben prima del fischio finale che ha formalmente consegnato l'anello ai Rams nel "loro" nuovissimo Colosseo. Lo ha vinto nell'intervallo, non appena le prime note di "The Next Episode" hanno fatto pulsare il cuore del SoFi Stadium.
Condensato, come da tradizione, in poco meno di un quarto d'ora, l'Halftime Show di questo 2022 è stato tutto ciò che prometteva di essere. L'urlo dei 70mila che si fa assordante nella transizione sull'immortale "California Love" di Tupac Shakur, poi omaggiato da Dr. Dre, mattatore assoluto dello spettacolo, con una breve citazione di "I Ain't Mad At Cha" in filtro color ebano e avorio. E poi c'è il plebiscito dei social network, dove si sprecano le etichette per raccontare un momento che si è già accomodato in prima fila nella foto di famiglia delle finali del "Super Bowl"; dove può godere dell'ottima compagnia, tra gli altri, della storica presa al volo con il casco di David Tyree e dell'intercetto di Malcolm Butler, eroe dell'ultimo atto del 2015.
Famiglia è una parola che ritorna. Perché quello che ha messo in scena il Dottore più celebre dell'Hip Hop al fianco dei compari di una vita intera è stato soprattutto - citando una delle hit intonate da Mary J. Blige - un affare di famiglia. Da Snoop Dogg a Eminem, passando per 50 Cent fino a Kendrick Lamar e Anderson .Paak. Come fu un ventennio fa in occasione del celebre "Up In Smoke Tour", che attraversò parte degli Stati Uniti (con un paio di incursioni in terra canadese) nell'estate del 2000. Dr. Dre ha portato sul palco la sua storia, indissolubilmente intrecciata con quella della doppia acca sin dalla metà degli anni '80. Una storia che è diventata il patrimonio di generazioni in tutto il mondo. Ha svezzato questa cultura negli ormai lontani giorni degli N.W.A.. L'ha fatta diventare grande nella prima metà degli anni '90, l'epoca del G-Funk e della famigerata Death Row Records, che diede i natali artistici a Snoop. E poi sul tetto del mondo; con Eminem prima e Kendrick poi, diventati i primi rapper nella storia a mettere in bacheca un premio Oscar - con quella "Lose Yourself" che si è conclusa "in ginocchio" sul palco, à la Colin Kaepernick - e un premio Pulitzer.
E ora, dopo una partita giocata praticamente senza interruzioni da ormai 35 anni, è arrivato - con la complicità della Roc Nation di Jay-Z, uno dei pochi altri azionisti di maggioranza del Rap d'oltreoceano - anche il "Super Bowl".
L'ennesima targa su una parete dove trovare spazio è ormai un'impresa. Il riconoscimento per un'intera cultura, che è riuscita a percorrere passi ben più lunghi di quelle che erano le sue prospettive alla nascita. Il monito per una generazione di giovani artisti che giocano costantemente il proprio "all in" sul presente, senza mai alzare un poco lo sguardo per ricordarsi che esiste anche un domani. Come a voler dire: «Se fra 5, 10 o 20 anni volete ritrovarvi qui, come noi oggi... Beh, così non ce la farete mai». Parola, estrapolata dai fatti, di uno che nonostante gli oltre tre decenni passati nel gioco è «still D.R.E.».