Ensi presenterà il suo ultimo EP venerdì allo Studio Foce di Lugano. Lo abbiamo intervistato.
Il lavoro a quattro mani con Crookers su "Domani". Qualche anticipazione sul prossimo album (che concluderà la trilogia). E un po' di «nostalgia canaglia» parlando di freestyle.
LUGANO - Pezzo da novanta e pezzo di storia del rap italiano. Perché quando si parla di Hip Hop, Ensi è uno che può vantare voti alti in tutte le materie. Le rime, gli album, l'attitudine al microfono e un curriculum iconico nel campo del freestyle. Venerdì sera il rapper sarà allo Studio Foce per presentare la sua ultima fatica discografica.
Ensi, riparti da Lugano. E per il tuo "Domani" è una prima assoluta…
«Sì. Mi era capitato in questi mesi di fare qualche pezzo dal vivo, ma questo è il primo show dopo la pandemia e il caos di questi ultimi anni. Quindi non vedo l’ora di arrivare. Per noi è un po’ il “beta test”. Finalmente venerdì proveremo qual è l’effetto sul pubblico di questi rap e di quello a cui stiamo lavorando».
Perché in questi due anni a noi la musica è arrivata comunque. Ma a chi sta sopra il palco immagino sia venuto a mancare un metro fondamentale. Di emozioni e reazioni. Dovendo pescare tra i pezzi degli ultimi dischi - e ci mettiamo anche il tuo nuovo singolo “Ho la hit” -, qual è quello che non vedi l’ora di presentare?
«Ti dirò la verità, ce ne sono parecchi di cui sono curioso di vedere quale sarà la reazione. E ci butto dentro anche il primo EP (“Oggi”, ndr.) perché, ormai non è un segreto, sono parte di una trilogia. Tu hai citato l’ultimo brano, con Massimo Pericolo: ecco quello non vedo l’ora di suonarlo dal vivo, proprio perché è l’ultimo nato. Di quelli che invece sono nelle tracklist di “Oggi” e “Domani” c’è senza dubbio “Specialist”, che è stato il singolo d’anteprima del primo EP. Del secondo invece sicuramente “Baby”, perché trovo che sia un pezzo molto riuscito, sia per la base che per quella che è la mia attitudine al microfono. Ed è soprattutto più lontano dal “range” di brani che ti aspetti da me, che sono notoriamente un rapper da battaglia, con un determinato tipo di liriche. Invece in questo caso andiamo in tutt’altra direzione, sembra quasi un monologo di stand-up comedy. Quindi vedremo un po’ che succede…».
«Tutt’altra direzione…», raccolgo l’assist. In questo disco hai esplorato territori più distanti da quelli percorsi in passato. Quale è stata la spinta che ti ha fatto dire “devo fare qualcosa di diverso”?
«In realtà diciamo che la mela non è caduta così lontana dall’albero. Nel senso che io comunque faccio rap e quando fai partire un qualsiasi mio lavoro non c’è alcun dubbio che stai ascoltando quel genere musicale. Però diciamo che avendo ormai una bella discografia, con tanti album e tante collaborazioni, spesso poi viene a mancare anche solo quella voglia di dire “mi butto e faccio qualcosa che esce un po’ dalla mia zona di comfort”. Perché siamo sempre abituati a questa modalità di lavoro, all’essere molto produttivi, a cui ci spinge anche l’industria discografica. E questa cosa di “buttarsi” secondo me ne risente. Io fortunatamente faccio parte di quella categoria che in un certo senso non ha nulla da dimostrare. Anche se chiaramente ho tutti i giorni qualcosa da dover dimostrare… Ma il mio è un discorso diciamo di macro-visione. E quindi mi posso permettere il lusso di rischiare. Ho cercato di fare brani che fossero sempre rap - perché non c’è stata una sperimentazione che mi ha portato lontano da quello che ho fatto - ma cercando delle chiavi di lettura differenti. Ti faccio un esempio. Prendiamo “Baby”, che ho già citato, oppure “Benzo”. Sono due brani cosiddetti “drumless”, senza le batterie. Ed è una scelta molto americana che non si usa molto in Italia. E chiaramente siamo andati un po’ contro tutte le leggi di mercato. Quindi, proprio a livello culturale, non è così facile far diventare questa roba un vero e proprio “banger”. Però io sono molto contento perché sia gli addetti ai lavori, sia i rapper e la gente che ne sa e ne mastica vede in questa musica qualcosa di spessore. E questo per me, al di là delle scelte artistiche, è sempre molto importante».
E la scelta in questo caso è stata quella di affidare l’intero comparto musicale a Crookers…
«Con “Domani” l’idea era proprio quella di vedere che visione aveva un produttore come Crookers di quello che è il mio modo di fare rap. E lui stesso mi ha guidato molto, infatti dico sempre che questo lavoro è stato un cinquanta e cinquanta. Mi ha guidato nella scelta di una produzione piuttosto che un’altra. O ancora mi ha spinto a non abbandonare un’idea che io avevo abbozzato. Un altro esempio, più concreto, è quello di “Benzo”, che era nato completamente su un’altra base. Si tratta di un brano di "wordplay". Di un esercizio di stile. Non ha una tematica portante o una storia da raccontare. E quando l’ho registrato su una base molto più classica lui mi disse: “Lo sappiamo benissimo che sei bravo a fare questa roba. E ci piace sentire come la fai. Ma forse vorrei sentirla su un’altra sonorità…”. E devo dire che questo è stato il guizzo che cercavo in un produttore come lui. Penso di aver dimostrato di saper fare un po’ di tutto, però volevo unire tutti questi aspetti in un piccolo cocktail - alla fine sono solo sei brani - e credo che siamo riusciti a proporre un bello spaccato di quello che ero io in quel momento e di quello che possiamo essere io e Crookers insieme».
Quindi è stato a tutti gli effetti un lavoro di totale sinergia…
«Lui ha avuto proprio il ruolo di un direttore d’orchestra. Chiaramente sono state fatte scelte discografiche molto estreme, perché non c’è un solo brano che incontra le sonorità del momento. Non c’è il brano di turno appetibile e facile all’ascolto. Anche il rap è tecnicamente molto ricercato. E questo credo possa essere un limite per chi non è un appassionato del genere. Però è su questo che volevo andare ad attecchire. Non è stato tanto un discorso di “prendiamo del terreno che ancora non abbiamo conquistato” ma piuttosto “continuiamo a coltivare un terreno su cui ho già fatto crescere dei begli alberi e vediamo di far fiorire frutti ancora più maturi”. È stata questa la mia visione».
E dato che si parla di una trilogia. Un “Domani” così non può che creare aspettative per il “dopodomani” che sarà. Hai già una direzione?
«La "fisarmonica" di tempo in cui ho rilasciato i primi due EP non è stata quella che mi immaginavo. E anche il terzo ha subito dei ritardi, quindi di sicuro nel 2022 non uscirà. Pensa che questa idea della trilogia era nata già nell'estate del 2019. Poi ci sono stati questi due anni. E anche per me tenere in piedi questo fil rouge con cui si collega il tutto non è così semplice. Però sono sicuro che con l'uscita del terzo capitolo, nel 2023, si potrà avere un quadro chiaro dell'insieme, che mantiene il questo concept sul tempo che secondo me rimane molto ficcante. E sulla sonorità, avevo già un'idea di fondo per cui il terzo capitolo si sarebbe differito notevolmente dai primi due. Uno spaccato musicalmente diverso. Idea che non ho abbandonato ma che andrò ad arricchire. Perché sono dell'idea che serva del tempo per fare la musica e bisogna essere anche un po' coraggiosi, per non andare sempre incontro alle scelte di tendenza che sembrano essere le uniche che dominano. C'è sempre un obiettivo di crescita. E posso già preannunciarti che il terzo capitolo non sarà un EP ma sarà un ascolto un po' più esteso. Avrà la funzione della famosa ciliegina sulla famosa torta».
Ecco, le tendenze attuali. Allargando lo sguardo alla scena italiana, abbiamo visto in pochi mesi una grande concentrazione di uscite firmate da tanti pezzi grossi. Il tuo, Guè, Marracash, Noyz, Luché, Fibra, Salmo... e qualcun altro che sicuramente sto dimenticando. Un'occasione per farsi un'idea sullo stato di forma del rap in Italia. A tuo avviso come sta in questo momento?
«Credo stia vivendo un grande momento di splendore, che ovviamente si confonde un po' nella frenesia della discografia. Perché escono tante cose insieme e quindi anche la modalità che la gente ha di assimilarle è completamente diversa da quella prevista. È tutto molto più veloce. E credo che molti di quelli che hai citato - che tra l'altro sono parte di una generazione molto più vicina alla mia - stiano facendo i loro migliori. Credo ci sia ancora una vecchia guardia che in un certo senso detta legge, al netto ovviamente degli exploit o della parabola ascendente che può avere un personaggio o un collettivo. Però parlando strettamente del rap credo che stiamo vivendo un momento di splendore nel quale i più grandi sono ancora lì a fissare lo standard e a "illuminare la via". E poi nel sottobosco ci sono delle penne e degli artisti molto forti, di generazioni successive alla nostra, che stanno raccogliendo quell'eredità. Vedo fortunatamente un ritorno alla tecnica. Un ritorno alle cose da dire. L'affermazione di dischi in cui gli artisti si sono raccontati. Penso a Massimo Pericolo, che va in una certa direzione con la scrittura. Penso all'ultimo album di Paky, molto denso nel linguaggio e nel racconto. E questa cosa mi piace molto».
Ma in questo momento di splendore trovi anche qualche elemento, diventato centrale nel rap, che invece non ti piace? In cui non ti riconosci...
«Essendo non solo un grande appassionato ma anche un protagonista della scena devo fare giocoforza di alcuni fattori. Provengo anche da altre generazioni, dove ad esempio questo glorificare la propria immagine a tutti i costi non faceva parte del nostro codice. Abbiamo iniziato a pensarci molto dopo a come ci vestiamo, come ci presentiamo. Mi piace sicuramente vedere che i ragazzi oggi, in un'ottica più ampia di business, possono andare a occuparsi anche di questi aspetti, perché fanno parte del nostro "game". Però a mio avviso non sono il fulcro. Vediamo oggi troppa leggerezza su questioni importanti. Spesso ci si dedica poco alla musica e molto di più alla confezione. A come appaio sui social; a come racconto la mia vita e a questa gara ad avere le spalle più larghe di quello vicino a te. Però non riguarda solo il rap. Si è un po' vittime dei tempi. Ma non è comunque il cancro di questa musica. Non vedo un cancro in questa musica. Vedo solo una corrente generazionale che è vittima di questo momento superficiale, egocentrico e, se vogliamo, materialista. E questo, di riflesso, si rispecchia anche nella musica. Diciamo che vorrei sentire meno liste di orologi e più racconti. Perché mi interessa sapere come hai fatto a comprarti l'orologio, non perché lo hai comprato. D'altro canto diamo però a questi ragazzi il tempo di crescere, perché spesso si tratta di ragazzi molto giovani».
Per concludere: il freestyle. Perché non posso non toccare l'argomento. Un tempo un esame, ora invece un'arte un po' "perduta". Una disciplina che però tu non hai mai mollato. Nel 2022, dopo tanti dischi, cosa rappresenta per Ensi il freestyle? È ancora una palestra?
«Negli anni credo di essere riuscito ad allineare un po' quello che è il mio istinto da freestyler, che è quello che mi ha reso chi sono, con la profondità delle liriche. E quindi di studiare la struttura di un pezzo o di un argomento e di fare delle rime che siano belle sia nella forma che nel contenuto. Il freestyle ho imparato a usarlo a mio favore proprio in questo. Anni fa, la critica che più mi veniva mossa era il fatto che non fossi iconico nei dischi quanto lo ero nell'improvvisazione. E quella è stata una cosa che ho faticato a digerire ai tempi. Ma effettivamente nei miei primi dischi questa cosa la sento molto. C'era l'embrione del rapper che sarei diventato ma era ancora di molto sotto le aspettative. Se guardiamo a oggi invece il freestyle per me è come un assolo nel jazz. Lo uso quando mi va di farlo. Lo accendo e lo spengo a mio piacimento, cercando di fare in modo che sia perfetto in quel momento. Poi la mia non è ovviamente più una gara a essere il più bravo. Ma volendo essere sincero non lo è neanche mai stata. Non ho mai sognato di essere il miglior freestyler d'Italia. Sognavo di essere un rapper abile, uno che spacca. E in quel momento avevo solo quell'arma per farmi vedere. Che tra l'altro era affilatissima e quindi con quella abbiamo fatto la storia e abbiamo mostrato una via. Il freestyle comunque oggi arriva a livelli assurdi. C'è una nuova generazione molto brava e capace che ha settorializzato la disciplina. La mia generazione la usava per fare breccia. Loro invece la hanno come tratto distintivo principale».
Ma un po' di nostalgia delle battaglie sul palco la senti mai?
«Diciamo che spesso sono più che altro le persone che incontro a farmi salire un po' di nostalgia canaglia. Perché erano presenti in un determinato momento o si ricordano di quella cosa nello specifico. Alla fine, come dicevo, ho ricoperto un ruolo fondamentale. Sicuramente quando chiuderanno il libro di questa cosa, se si parla di freestyle ci sarà un prima e un dopo la venuta del sottoscritto. Ho lasciato il mio tratto. Ma ripeto, per me è estemporaneità totale. Mi diverte farlo e lo faccio spesso anche con gli amici. Anche solo per ridere tra di noi. E spesso mi lamento di non avere un microfono, perché ogni tanto mi partono delle cose che dico: "Questa era proprio da registrare"».