Massimiliano Ay, segretario politico del Partito Comunista
I conflitti non sono solo naturali, ma sono anche sinonimo di dinamismo e progresso: essi, infatti, non per forza si esplicano in violenza, ma rappresentano lo sviluppo di contraddizioni che, a loro volta sono l’essenza di una società in cui convivono o si scontrano interessi sociali diversi. I conflitti, insomma, se gestiti con intelligenza e acume politico, permettono di conquistare diritti, di favorire la partecipazione (migliorando così un processo democratico) e possono persino favorire le scoperte scientifiche, che sarebbero invece impensabili se tutti i ricercatori ripetessero a pappagallo quello che altri scienziati hanno affermato prima di loro. Il conflitto lungi dal rappresentare un problema, è dunque essenziale anche in una istituzione accademica.
Senza il conflitto fra gli storici, che portano avanti visioni storiografiche diverse e in contrasto fra loro, nessuna ricerca della verità sarebbe possibile. Senza fisici o biologi che confutino le scoperte (altrettanto scientifiche) di altri scienziati, entrando così in conflitto con loro, ogni sviluppo della medicina sarebbe impossibile. E invece, oggi, i primi a non accettare il conflitto, a non saperlo gestire, sono proprio tanti professori che riempiono i rettorati dei nostri atenei. Più che intellettuali, questi sembrano banali burocrati governativi o al massimo dei tecnocrati. In altri tempi li avremmo definiti: “Fachidioten”.
Nel 2002 ho temporaneamente occupato l’Università di Zurigo. Nel 2009 ho pernottato con i ragazzi ("illegalmente" ovviamente) all’UniTobler di Berna. Il conflitto c’era, il braccio di ferro col rettorato non mancava così come le trattative con la sicurezza interna all’ateneo, ma non ho mai dovuto affrontare la Polizia perché, nel nome della libertà accademica, doveva starsene fuori dagli stabilimenti. Ora leggo di rettori che, dopo poche ore di protesta, invocano l’ingaggio delle forze dell’ordine; che non si fanno problemi se dei poliziotti scorrazzano fra le aule armati, e che arrivano a far ammanettare degli studenti che esprimevano un’opinione in un atrio (peraltro in modo assolutamente pacifico e senza ostacolare la normale attività didattica). Altri rettori invece sporgono denuncia per violazione di domicilio contro i loro stessi studenti dimostrando l’incapacità di gestire un conflitto sul piano dialettico, sia politico che educativo, come dovrebbe fare un insegnante, portandolo invece subito sul piano giudiziario, cioè criminalizzando ogni forma di dissenso.
Gli studenti si limitano a prendere possesso dei loro spazi per discutere su un tema relativo ai loro studi. Le università più che “per studiare”, oggi sono fatte per servire le aziende e i governi: multinazionali, NATO, regime sionista e istituti dell’UE sono infatti direttamente presenti nei nostri atenei, orientando la ricerca e interferendo nell’insegnamento. Fanno dunque bene gli studenti a denunciare queste connessioni, perché la cooperazione accademica con Israele significa complicità con la ricerca scientifica sfruttata proprio dall’esercito sionista impegnato in un genocidio in Palestina. Sto esagerando? “Le Courrier” del 14 maggio apre con questo titolo: “il marito della rettrice è membro di una società che fornisce motori a reazione per gli aerei dell'esercito israeliano”. Ovviamente nessun conflitto d’interesse… figurarsi!
Cos’è diventata l’Università? Un luogo di omologazione culturale e di yes man dediti al politically correct e contrari al pluralismo? Un posto in cui conta di più il modo con cui scrivi le bibliografie che non l’originalità di una tesi di ricerca? Un luogo in cui il perbenismo supera la coscienza critica? Questi studenti non solo restituiscono dignità al mondo accademico ma possono vincere come successo in Spagna (anche grazie al lavoro del Partito Comunista che sta al governo) dove 76 università, pubbliche e private, romperanno i rapporti di cooperazione con Israele, a meno che le autorità accademiche israeliane non esprimano «un fermo impegno per la pace e il rispetto del diritto internazionale umanitario».