«Faccio causa e se vinco devolvo tutto in beneficenza»
«Spalletti, Chiellini, Pirlo, Buffon, in tanti hanno solidarizzato».
TORINO - Prima i malumori, poi lo sfogo social della moglie, infine la “confessione” in prima persona. Leonardo Bonucci ha dato l’addio - anzi l’arrivederci - alla Juve raccontando a sportmediaset la sua versione dei fatti. Quella di un uomo, prima ancora che di un professionista, ferito e umiliato. La"chiusura" da parte del club è stata sensata? Per il calciatore i modi sono stati sbagliati. E, soprattutto, è stata raccontata una storia sbagliata, fatta di menzogne.
«Ho letto e sentito cose non vere dette dalla società e dall'allenatore - ha spiegato il 36enne - e così, dopo grandi sofferenze, ho deciso di intraprendere la strada della causa. È stato detto che a ottobre sono stato messo a conoscenza di progetti futuri che mi escludevano dalla Juve. È falso. Proprio in quel mese mi è anzi stata data la possibilità di rinnovare. Siamo andati avanti insieme perché la società aveva capito l'importanza di avermi all'interno dello spogliatoio. Poi l'allenatore ha sottolineato come il concetto dell'addio a fine stagione sarebbe stato ribadito da lui stesso e dalla società a febbraio. Anche questo non è vero: solo a fine marzo, prima della partita col Friburgo di Europa League, il mister mi ha convocato nel suo ufficio per dirmi che sarebbe stato il caso di anticipare il mio percorso da allenatore lasciando il calcio giocato. Gli ho detto che rispettavo la sua opinione, ma che fino all'Europeo 2024 non volevo smettere. A fine maggio la società mi ha comunicato che sarei stato la quinta-sesta scelta in difesa e una chioccia per gli altri. Ho accettato senza volere creare problemi. Poi è cambiato tutto nell'estate. Ho annusato qualcosa leggendolo sui giornali fino a quando, il 13 luglio, venendo a casa mia Giuntoli e Manna mi hanno comunicato che non avrei più fatto parte della rosa e che la mia presenza in campo avrebbe ostacolato la crescita della squadra. Questa è stata l'umiliazione che ho subito dopo 500 e passa partite in bianconero. Questo mi sono sentito dire. Avevo il diritto di allenarmi con la squadra, a prescindere dalla scelta tecnica. Avevo il diritto di essere messo in condizione di poter affrontare fisicamente e atleticamente la stagione successiva. Non mi è stato concesso. Mi sono sentito svuotato di tutto, umiliato, non potevo fare quello che amo di più. Non è una questione di soldi, se dovessi vincere la causa, devolverò tutto in beneficenza».
Un amore finito
«È molto difficile pensare all'ultimo periodo, mi piace invece pensare alla Juventus di cui ho fatto parte, quella che vinceva, quella vera, quella che in questi ultimi due anni non si è mai vista. Non ho nulla contro la società o i tifosi. Sto portando avanti questa causa perché le persone che dovevano farmi chiudere la carriera in bianconero in modo rispettoso e degno non l'hanno fatto. È la seconda volta che mi trovo costretto a lasciare la Juventus, in entrambi i casi per la presa di posizione di un singolo, che non sono io. Quello che è sotto gli occhi di tutti è che non ho mai avuto un rapporto come avrei voluto con l'allenatore».
Tanti amici nel calcio.
«Mi ha fatto sorridere Pirlo, che mi ha detto che magari potrebbe succedere come a lui: continuare a vincere da un'altra parte dopo che ti danno per finito. Ho sentito anche Chiellini, con cui ho un rapporto fraterno, e pure Buffon che voleva sentire la mia verità, diversa da quella scritta dai giornali. Spalletti mi ha chiamato per comunicarmi che non mi avrebbe convocato per queste ultime partite della nazionale. E non era un atto dovuto, è stato un gesto che ho apprezzato tantissimo, fa capire il suo spessore umano, la sua sincerità. Sono poi rimasto colpito dai tanti messaggi, la vicinanza di giocatori attuali della Juventus, di ex bianconeri, di compagni della Nazionale. Tutti mi hanno manifestato la loro solidarietà davanti al trattamento irrispettoso ricevuto».