«Aeroporto, albergo, stadio, il giro era sempre quello: da calciatore ho viaggiato per il mondo ma non ho visto nulla»
Durante la carriera c’è pochissimo spazio per la tua vita. Avendo giocato ad alti livelli, una volta smesso mi sono però “economicamente” potuto permettere di riposare.
COIRA - Raggiunta la pensione dopo anni vissuti a ritmi serratissimi, ha pensato bene di godersela. Non all’infinito però. Ricaricate le pile, Senad Lulic è infatti tornato ad avere grandissima voglia di pallone.
Stare troppo lontano da un mondo che lo ha visto protagonista per tre decenni, d’altronde, non era pensabile…
«Smettere è sempre dura - ci ha raccontato proprio il 37enne - Negli ultimi anni capisci che il ritiro si sta avvicinando, è vero, ti prepari mentalmente; quando arriva il momento non è comunque facile accettarlo e superarlo. Passi dal giocare spessissimo davanti a sessanta-settantamila persone al nulla. Il salto è grande. Il mio caso è stato un po’ particolare: io ho chiuso quando il Coronavirus era già arrivato. Gli stadi erano vuoti, c’erano tante restrizioni, ogni tre giorni dovevi fare il tampone… alla mia età la situazione era diventata un po’ pesante».
E il passo da compiere è stato un po’ meno grande.
«Chiudere è stato comunque complicato, ma devo ammettere che ero completamente scarico. Si dice: “I calciatori sono dei privilegiati”. È vero, ma durante la carriera c’è pochissimo spazio per la tua vita. Faccio un esempio: con le mie squadre ho viaggiato per il mondo. Ma cosa ho visto? Niente. Giocando ogni tre giorni il giro era sempre quello: l’aeroporto, l’albergo, lo stadio. Non ero mai a casa. Non mi sto lamentando, ci mancherebbe, so di essere stato un privilegiato, ma in tanti anni non ho davvero avuto la possibilità di pensare ad altro oltre al calcio: andare a sciare, a giocare a tennis, stare con i figli… di spazio per questo non ne ho avuto. Ho quindi trovato normale, una volta smesso, staccare un po’ la spina, stare a casa, “tranquillizzarmi”. Una delle grandi fortune dell’aver giocato ad alti livelli è che economicamente mi sono potuto permettere di riposare per un po’. Senza fretta. Ma non all’infinito. Poi una persona deve trovare qualcos’altro da fare. In fondo, normalmente, uno diventa ex calciatore prima dei quarant’anni».
Sei partito dal Coira, sei poi andato al Bellinzona e al Grasshopper. Hai continuato a crescere puntando sullo Young Boys e infine c’è stato il grande salto alla Lazio. L’ascesa è stata continua. Qual è però stato il “balzo” più complicato?
«Si potrebbe pensare al passaggio alla Lazio. In realtà il cambiamento più duro e allo stesso importante è stato quello tra Coira e il Bellinzona. Ero in Seconda Lega Interregionale e sono finito in Challenge League. Sono partito che ero poco più che dilettante e in poche settimane mi sono ritrovato a essere un professionista. Prima facevo tre allenamenti a settimana, poi tutti i giorni, con il mercoledì che era dedicato alla doppia seduta. Inizialmente in granata ho fatto fatica. Tutto andava più veloce. I compagni erano più bravi. Poi uno si impegna, cresce, si abitua, ma il cambiamento è stato radicale».
Hai smesso di divertirti…
«Esatto, è finito il gioco ed è cominciato il lavoro».
Hai vissuto in piazze molto calde, nelle quali i derby sono ancora oggi sentitissimi. Quello di Roma è il top?
«Non c’è proprio paragone con gli altri. Questa è la mia opinione, ovviamente. Non si tratta di una partita normale, è una sfida che vale una stagione».
In una recente intervista, Francesco Totti ha detto che la tensione nello spogliatoio si cominciava a sentire a due settimane dalla stracittadina.
«Due settimane? Molto prima. Già ad agosto, a luglio, quando venivano sorteggiati i calendari. Appena sapevamo quando erano in programma i match con la Roma, cominciavamo a fare i nostri conti. Il sentimento e la tensione, dentro di me, devo ammetterlo, sono cresciuti con il passare del tempo. Nei primi due-tre anni consideravo il derby solo una partita di pallone. Quando però giochi per tanto tempo in una squadra, quando si fa forte il tuo senso di appartenenza, oltre che un professionista diventi anche tifoso».
In carriera hai avuto tanti allenatori che ora sono sulla cresta dell’onda. Pioli e Inzaghi, per esempio.
«Stefano era già molto esperto e insegnava calcio. Simone è un fratello, allena da meno tempo ma ha già dimostrato di essere molto bravo: l’anno scorso ha fatto la finale di Champions…».
Era già alla Lazio quando sei arrivato a Roma?
«Ha smesso quell’anno e ha iniziato subito il suo percorso in panchina. Ha fatto la gavetta con i giovani prima di arrivare in Prima squadra».
In biancoceleste hai avuto pure Reja e Petkovic.
«Edy è un sergente di ferro. Uno della vecchia guardia. Molto bravo. Vlado è invece per me stato semplicemente il più importante di tutti. Come mister ma anche e soprattutto come uomo. Lo ho avuto al Bellinzona, allo Young Boys e poi l’ho ritrovato in biancoceleste. Riusciva a farmi tirare fuori il massimo, mi ha fatto crescere tanto. Eravamo molto legati e lo siamo tuttora».
Un modello al quale ispirarti?
«Voglio allenare, è vero, ma non so dove mi porterà in futuro il pallone. Cosa farò? Potrei essere il capo tecnico, il secondo o altro. L’unica certezza è che… non ci sono certezze e le occasioni sono sempre meno: le squadre di alto livello sono quelle, in Svizzera come in Italia, e ogni anno si formano sempre mister nuovi. Non posso quindi programmare molto: se c’è un’occasione che reputo valida, che secondo me funziona, allora posso anche buttarmi. Un aspetto positivo è che una volta lo staff tecnico era composto da tre persone, oggi è invece quasi più numeroso della squadra stessa».
Hai condiviso lo spogliatoio con, tra i tanti, Scaloni, Klose e Milinkovic-Savic: di sicuro tanti anni di carriera ti hanno portato ad avere una fitta rete di contatti.
«È vero. Tanti amici. Ed è anche per quello che non so cosa succederà: nel calcio può accadere di tutto e io, di sicuro, non mi precludo alcuna possibilità».
Il tuo futuro è tutto da scrivere. Il tuo passato dice che sei nato a Mostar, città del famoso Ponte Vecchio, uno dei simboli delle guerre jugoslave. E le guerre, purtroppo, sono un argomento di stretta attualità.
«Per me è difficile parlarne. Sono stato costretto a lasciare la mia casa e sono arrivato in Svizzera a 12 anni. E ancora oggi, in situazioni come quella attuale, soffro. Chiudo gli occhi e mi tornano in mente le immagini, i rumori e gli odori della mia infanzia. Rivivo tutto quello che ho passato. Ho vissuto la guerra, ero lì, so cos’è e com’è e mi chiedo: com’è possibile che in questo mondo non si sia trovato il modo per stare tutti in pace? Devo essere sincero, provo quasi un senso di fastidio davanti a certe notizie, perché so che dietro alla violenza c’è tanta disperazione. C’è la sofferenza dei più deboli, soprattutto dei bambini. Non c’è molto da commentare, si può solo sperare che il tutto finisca il più presto possibile. La guerra… non c’è sbaglio più grande».