«A un allenamento, dopo una sera da un paio di birre, Fischer e Jenni non hanno fatto un ca**o»
Gaetano Orlando: «In tanti mi dicono: “quando cominci a comportarti per quel che sei, invece di fare lo str**zo come avessi dieci anni?”».
NEW YORK - Figlio di immigrati italiani, per farsi velocemente rispettare da coetanei che guardavano in cagnesco, l’unico modo era combattere. Mostrare i muscoli. Dimostrare di avere un cuore più grande del loro. E in un posto dove l’inverno è lungo e freddo, questo significava riuscire a eccellere nel “loro” sport. E questo ha fatto Gaetano Orlando. Si è battuto e ha vinto. È partito da Montreal, ha assaggiato l’hockey dei grandi in Nord America, ha conquistato l’Europa, per poi tornare a casa. Ha insomma davvero dimostrato di avere un grande cuore. Anzi, due, tenuto conto che, nel febbraio 2013, dopo mesi difficili ha subito un trapianto che gli ha salvato la vita.
«Ho festeggiato i dieci anni - ha raccontato proprio Gaetano, anzi Gates - sono tranquillo, mi sento bene. Anzi, mi sento molto più giovane di quanto in realtà non sia. Poi è il corpo, qualche doloretto, che mi ricorda che invece di anni ne ho più di sessanta».
L'età è solo un numero…
«Sono d’accordo. Il giovanotto dentro di me non è mai partito. In tanti mi dicono: “quando cominci a comportarti per quel che sei, invece di fare lo str**zo come avessi dieci anni?”».
E tu li mandi al diavolo?
«Rispondo: "guarda che è meglio essere così che comportarsi da vecchio"».
Sei nato a Montreal da una famiglia italiana; sei più nordamericano o europeo?
«Mi sono sempre sentito italiano. A casa, da piccolo, si parlava in italiano. Amo il Canada, ci sono cresciuto, è il Paese di tanti amici, vivo da nordamericano... ma il sangue è italiano».
Nell'87 hai lasciato per la prima volta il Nord America per l'Italia. Merano è stata una scelta economica o di cuore?
«Ero un giocatore dei Buffalo Sabres e, senza free agency, la franchigia vantava dei diritti (per giocare, ndr) su di me. Mi offrirono un contratto triennale a cifre molto buone, al triplo di quanto avevo fin lì guadagnato, garantite però solo nel caso in cui fossi rimasto in NHL. In realtà, già lo sapevo, mi avrebbero mandato in AHL, dove avrei preso pochissimo. Così, furioso, per provare a convincerli a scambiarmi, optai per uscire dalla Lega e giocare all'estero, in Italia. È stata una delle tante sliding doors che ci sono nella vita. In Europa mi sono trovato benissimo, anche economicamente, tanto da tornarci, dopo una breve parentesi ancora ai Rochester Americans, e rimanerci per tutta la carriera».
Chiuso con l'hockey giocato, hai fatto l'allenatore. Per poco però.
«Ho fatto cinque anni, due da head coach. Poi il mio capo mi ha chiesto di fare lo scout e ho accettato al volo. Fare il coach dopo essere stato giocatore è complicato: hai appena terminato una carriera, sei ancora piuttosto giovane, chiedi ai tuoi ragazzi cose che per te sono scontate e che loro non capiscono... Non tutti sono adatti a quel ruolo. Poi, da allenatore pensi dalla mattina alla sera alla squadra e quando una partita va male ti riempi di dubbi. Ti dici: "Cosa avrei potuto fare di diverso?". Da scout invece non ti frega nulla del risultato».
Il tuo capo è Lou Lamoriello...
«È stato come un secondo padre per me. Mi ha aiutato quando ero un giocatore, quando ero un allenatore e poi ancora da dirigente. Dopo tanto tempo ai New Jersey Devils lui è andato via. Ora è ai New York Islanders... l'ho raggiunto».
Da scout, quanto tempo ci vuole per capire che un giocatore è speciale?
«Dipende: in alcuni casi basta un solo cambio, in altri dieci partite. Da qui a dire che poi un ragazzo verrà chiamato al draft, la differenza è comunque tanta. Si sceglie anche chi ha un profilo particolare, chi si pensa possa essere utile alla squadra. È come un puzzle...».
Nella tua lunghissima carriera, c'è qualcuno che hai incrociato ed è stato più che un collega, che è diventato un amico?
«Ce ne sono tantissimi. Parlando di Italia, mi vengono in mente Topa (Lucio Topatigh), Bruno (Zarrillo), Casciaro, Rosati, Campese, Baseotto, Zanatta e Diegs (Scandella). In Svizzera Reijo Ruotsalainen».
Nel Berna di Brian Lefley. E a Lugano?
«Peter Anderson, ma anche Fischer, Jenni e Crameri».
Tanta gioventù.
«Appena arrivato, coach Jim Koleff, grande persona, nello spogliatoio mi mise seduto in mezzo a Fischi e Marcel. Li avevo uno da una parte e l'altro dall'altra. Ho chiesto: "Devo far loro da padre?". Erano un po' così... leggeri. Avevano grandissime qualità, erano ottimi giocatori, ma siccome tutto riusciva loro facilissimo, la testa era quella che era. Diciamo che qualche bastonata da me l'hanno presa, ma grazie a quella sono diventati uomini. Vi racconto una storia: una sera noi tre siamo usciti per una birra, che poi sono diventate un paio o qualcosa del genere. Il giorno dopo c'era l'allenamento. Io ho fatto le mie solite cose, ho seguito la solita routine, loro invece non hanno fatto un ca**o. Non avevano voglia di lavorare. A fine seduta mi hanno chiesto di passare nuovamente la serata insieme. "Voi con me non potete uscire. Finché il giorno dopo lavorate così, niente più birre insieme"».
Hanno capito?
«Hanno capito. Quando li incontro, ancora oggi, mi dicono che hanno preso un po' della mia professionalità, che hanno imparato da me. Per me è un onore averli fatti crescere. Poi, ovviamente, anche io da giovane...».
Nelle varie tappe della tua carriera, da giocatore, c'è stata anche quella di Milano. Tre anni in una delle società della "polisportiva" voluta da Silvio Berlusconi. Lui era presente?
«Sì, certo, passava ogni volta che vincevamo il titolo e doveva mettersi in posa per uno scatto. Faceva il politico, gli serviva la foto per fare bella figura...».