Andrea Conti: «A Bellinzona sono stato benissimo»
«Chiamarmi Conti, a Roma, non è stato semplice. Oh, se sentivamo certi commenti…».
NETTUNO - Se dici Conti e parli di calcio, in molti si mettono subito sull'attenti. Viene subito in mente Bruno, campionissimo della Roma e dell’Italia. Ma anche Daniele, che ha riscritto la storia del Cagliari. Se si continua a parlare di quella famiglia, per i ticinesi c’è però qualcuno di più importante: tra il 2007 e il 2013, tra Challenge e Super League, a Bellinzona Conti era infatti solo Andrea.
«Nell’estate del 2007 ero reduce da un infortunio a una spalla e, senza squadra, mi stavo allenando con la Roma agli ordini di Spalletti - ci ha raccontato proprio l’ex granata - Lì incontrai Marco Degennaro, che stava trattando anche un altro ragazzo. Parlammo a lungo, a me un’esperienza all’estero stuzzicava e così partii all’avventura».
Doveva essere una toccata e fuga, è durata anni.
«Accettai per curiosità. Trovai però un bell’ambiente e mi adattai subito. Alla fine se sono rimasto tanto a lungo è perché sono stato bene, benissimo. E la Svizzera è per me divenuta una seconda casa. Da voi sono cresciute le mie figlie, ho coltivato amicizie importanti…».
Poi però sei tornato a Roma.
«Nella vita si devono fare delle scelte. La famiglia vince su tutto. Un giorno fai il punto della situazione, ti accorgi che i genitori cominciano a invecchiare, i figli a crescere, che hai fatto dei sacrifici… pensi a tutto e vedi quello che è meglio per te. Per tutti».
È stata dura convincere le tue ragazze a lasciare le amicizie per tornare a Roma.
«Siamo rientrati in tempo, avevano l’età giusta. Una aveva dodici anni, l’altra tredici, la situazione è stata abbastanza morbida».
Per te, dodicenne, tredicenne, com’è invece stato portare quel cognome in una Roma innamorata di papà?
«Non semplice. Chiamarmi Conti non è stato un vantaggio. Tutti guardavano Andrea e Daniele ma pensavano a Bruno. E facevano paragoni. Ogni volta che eravamo in campo dovevamo dimostrare più di tutti di meritare quel posto, di non essere dei raccomandati. Però, soprattutto a quell’età, non è che puoi sempre giocare al top. E così arrivavano i commenti, oh se li sentivamo… Comunque, poi, in carriera siamo riusciti a ottenere buoni risultati».
Età simile, stessa passione: tu e Daniele eravate inseparabili o cane e gatto?
«Siamo fratelli. Lo siamo sempre stati. Non ci sono mai state grandi litigate o gelosie. C’era il pallone che riempiva le nostre giornate e a noi quello bastava. Piuttosto, crescendo e seguendo le nostre strade, abbiamo avuto poche possibilità di stare insieme, di frequentarci. Ci stiamo rifacendo ora. Da un anno con papà abbiamo aperto un centro sportivo a sessanta chilometri da Roma. Ci siamo insomma ritrovati».
Sempre pallone?
«Abbiamo anche campi da padel. Ma il calcio è il cuore dell’attività. Abbiamo un'accademia nella quale curiamo il perfezionamento tecnico dei ragazzi. Nei vari settori giovanili certi insegnamenti non ci sono più. Un po’ per scelta un po’ perché, con 20-25 elementi da seguire, gli allenatori non riescono. Noi invece lavoriamo in piccoli gruppi, massimo sei giovani per ogni tecnico. L’attenzione è alla base del perfezionamento. E la tecnica è fondamentale, perché se arrivi a una certa età e non hai le basi, poi non vai da nessuna parte».
Ok il centro sportivo, ma la tua Roma?
«Quella ho dovuto lasciarla dopo l’esperienza dell’anno scorso alla guida dell’under 14. Con l’impegno al centro sportivo, in giallorosso non sarei riuscito a dare il massimo. Non mi sembrava quindi giusto continuare. Lasciare Trigoria è stata dura, per quello che rappresenta per me e per la mia famiglia. Ma non è stato un addio, nella vita non si sa mai».
Quel Settore giovanile ti ha visto protagonista anni addietro.
«Tanti di quelli con i quali sono stato in squadra, da ragazzo, sono riusciti a fare la loro carriera. Chi in un modo, chi nell’altro, chi completando il suo processo di maturazione prima, chi dopo… il bello del calcio è che non ci sono certezze. Mai. A Trigoria ho incrociato anche Totti, ma lui, vabbé, è un caso a parte: già da ragazzetto giocava con i professionisti. Si vedeva che era destinato a fare grandi cose».
E tu?
«Ho vissuto tante esperienze e mi sono molto divertito. La testa c’era, certo i problemi avuti a diciotto anni mi hanno molto segnato. Aveva già esordito in Serie A ma per tre anni e mezzo un infortunio alla caviglia mi ha frenato. E lì è finito il sogno. Ero nella nazionale giovanile, come tutti i giovani sognavo il Mondiale… e invece ho perso le occasioni, i treni sono passati, e anche le gioie. Perché quella è l’età più bella per fare il calciatore. Nel mio piccolo non posso dire di essere stato fortunato. Però non ho mai mollato e negli anni sono comunque riuscito a levarmi delle belle soddisfazioni».