Ludovico Basso è responsabile scouting per l'Europa e il resto del mondo per il Philadelphia 76ers
«Viaggio ma non faccio il turista. Kigali, in Ruanda, è un posto magico».
LUGANO - Negli Stati Uniti le celebrazioni sono una cosa seria. Ogni vittoria che si rispetti, si parla di sport, viene festeggiata alla grande. E ricordata. Spesso con un anello.
Come quello che ha ricevuto Ludovico Basso, professione scout NBA, che si è visto recapitare il “sigillo” commemorativo del trionfo in G League dei Delaware Blue Coats.
Ex cestista di ottimo livello, fermatosi presto per qualche problema fisico, da un anno circa il 30enne ticinese è parte integrante dell’organizzazione dei Philadelphia 76ers, a cui i Blue Coats sono affiliati.
Il primo anello è arrivato, ora manca quello per il titolo NBA…
«Quello è purtroppo molto più difficile da ricevere. Dopo qualche anno di transizione, i 76ers hanno a oggi uno dei management più solidi della NBA; ci manca però ancora qualcosina rispetto alle più forti. Non siamo i favoriti per il titolo insomma, anche se ce la giochiamo. Anche perché quest’anno la corsa mi sembra un po’ più aperta del solito: non vedo un avversario imbattibile».
Nemmeno con il fuoriclasse atipico Nikola Jokic a Denver, uno che sembra si interessi di tutto fuorché del basket?
«Ecco, lui gioca su un altro pianeta; quando si affrontano i Nuggets si deve sperare che non sia in giornata. Per quanto riguarda l’attitudine, invece, in realtà quella che si vede è una maschera. È molto serio, ci tiene tanto, lavora sodo. Per limitare al minimo le interazioni con gli altri, con i media soprattutto, si mette questa faccia da svogliato…».
Vista da fuori, la NBA è tutta scintillii e milioni. È così anche da dentro?
«È proprio così. Le cifre che si leggono sui contratti dei giocatori danno già un’idea. Ma tutto è esagerato. Le risorse che noi abbiamo per fare il nostro lavoro, per viaggiare e valutare i giocatori insomma, sono enormi. Non infinite, ma quasi. Le strutture che utilizzano gli atleti come anche ogni dipendente di una franchigia, le attenzioni di cui ti coprono… tutto è perfetto. C’è tutto. Pensano a tutto. E questo con l’unico scopo di permetterti di fare al meglio il tuo lavoro. Hai un problema con il computer? Te lo cambiano. Hai un problema con lo zaino, con i vestiti del club, con l’albergo, con i voli… te lo risolvono. Per quel che mi riguarda mi sono quasi viziato, perché davvero se c’è qualcosa di cui ho bisogno, mi basta chiedere e me la procurano».
Sei stato un giocatore, poi hai investito su te stesso, ti sei costruito e hai colto una possibilità. Qual è il prossimo passo?
«Faccio parte di un processo che per mia scelta è lento. Voglio cioè vivere tutto in maniera graduale. Quindi? Voglio diventare veramente bravo in quello che faccio, guadagnare la fiducia dei miei dirigenti e viaggiare molto di più negli Stati Uniti. Questo è il mio obiettivo attuale. Il prossimo step è quello di salire di livello nel front office e arrivare magari a essere direttore dello scouting globale per poi passare alla parte “strategy” del board. Ma non c’è fretta».
Da scout, cosa deve avere oggi un 14-15enne per permettersi anche solo di sognare l’America?
«Il fisico, prima di tutto. I dati sono ormai eclatanti: di giocatori alti meno di 1,90m che abbiano un minutaggio consistente ce ne sono sempre meno. Quelli più bassi devono essere super a livello tecnico o per quanto riguarda l’atletismo, altrimenti non trovano spazio. E questo perché, semplicemente, soprattutto nei playoff devi poter essere in grado di marcare avversari di diversi ruoli. E se sei il più piccolo in campo questo non lo puoi fare».
Quanto conta l’uomo e quanto il giocatore al momento della scelta?
«Io cerco prima di tutto di farmi un’idea in base a quello che vedo. Vado a un allenamento e guardo quanto un ragazzo è serio, concentrato, quanto si applica, se si ferma alla fine per migliorarsi… cose del genere. Poi indago. Mi affido a quel network di persone che è fondamentale per uno scout. Gli allenatori, i dirigenti, gli agenti: chiedo a chiunque per capire che tipo è il giovane che mi interessa. Più persone si ascoltano, più è accurata l’idea che ti riesci a fare. L’obiettivo è quello di minimizzare i rischi, anche perché al giocatore in questione, se lo scegli al draft, darai milioni. Fai un investimento insomma, e come in tutti gli investimenti cerchi di essere il più sicuro possibile. Poi di certezze non ce ne sono mai, anche perché davanti a tanti soldi e una grossa esposizione mediatica c’è sempre qualcuno che perde la testa».
Viaggi tantissimo, non ti pesa?
«Per la mia famiglia non è un problema. I miei cari mi hanno sempre supportato e spinto a inseguire il mio sogno e ora che ci sono dentro capiscono quanto mi piaccia quello che faccio. Ogni tanto, devo essere onesto, non è semplice sapere di dover salutare tutti e dover prendere magari due-tre aerei prima di arrivare a destinazione. Non è facile vedere il mio cane Malibù che mi guarda male quando faccio la valigia. Ma fermandomi a pensare un attimo mi rendo conto di essere un super privilegiato».
La famiglia, il cane…
«E la ragazza, ovviamente, Linda. Stare lontani, in una relazione, non è mai semplice. È chiaro che ci si manchi. La lontananza aiuta però anche ad apprezzarsi di più. Quando ci si vede non c’è per esempio il tempo per litigare, che poi solitamente lo si fa per delle piccolezze, e ci si gode il momento».
Viaggi tantissimo, riesci a fare il turista?
«Solitamente no. Ci sono però dei viaggi, soprattutto quelli un po' più lunghi, nei quali qualche giro riesco a farlo. La scorsa estate, per esempio, sono andato a vedere i Mondiali nelle Filippine e poi sono volato in Australia per seguire un torneo. In quel caso qualche giorno libero, senza partite, c’è stato e così ne ho approfittato per esplorare e visitare. E mi sono innamorato di Sydney: è veramente bella, inaspettata per certi versi».
Sydney, facile…
«Volete una sorpresa? Kigali, in Ruanda. È un posto bellissimo, magico. Non me lo aspettavo: mi ha veramente colpito».