«Quando smetti dopo aver fatto addominali tutti i giorni è facile ingrassare. Ma non me ne frega niente»
«Al giovane Gavranovic direi: “Calmati un attimo”».
LUGANO - «Ogni tanto ho un po’ di nostalgia delle partite, ma sto bene, il calcio non mi manca». Parole e musica di Mario Gavranovic, uno che è vissuto di pane e pallone per trent’anni, mese più, mese meno, ma che dallo scorso marzo ha saputo staccare definitivamente la spina. Uno dei migliori calciatori prodotti dal Ticino fa ora il mestiere più bello e insieme complicato del mondo: il papà.
«La mia Leonie - ha raccontato proprio il 35enne ex attaccante - La mia piccola, la amo, per me è tutto».
C’è qualcosa che tu non hai avuto e che, invece, vorresti per lei?
«Per lei voglio tutto il meglio. Detto ciò, pure a me non è mai mancato qualcosa. Non mi posso assolutamente lamentare perché quello che potevano, i miei genitori me lo hanno dato. E io non ho desiderato nulla di più. Poi già da giovane ho cominciato a badare da solo a me stesso…».
Il giovane Mario è andato via di casa appena maggiorenne. Tutto per il pallone.
«Per questo dico che in fondo il calcio non mi manca. Che ho voltato pagina tranquillamente. Il pallone mi ha dato tantissimo, ma mi ha pure tolto. Non ho più la possibilità di vivere le emozioni provate per un gol? È vero, contemporaneamente non però c’è più lo stress della partita, non c’è la preparazione, non ci sono i ritiri…».
Non fai più parte di uno spogliatoio.
«Ecco, quello mi dispiace, anche se quel cameratismo puoi trovarlo in altri ambienti. Per tanti anni sono stato lontano dal Ticino. Una volta ritornato ho tuttavia ritrovato tanti vecchi amici, quelli che per via del mio lavoro non avevo mai l’occasione di frequentare».
Il tuo peregrinare ti ha visto giocare a Yverdon, Neuchâtel, Zurigo ma anche in Germania, in Croazia e in Turchia. Tanto girovagare è stato un peso?
«No, perché l’ho immediatamente inteso come un lavoro. Ero infatti consapevole di avere una carriera non infinita da portare avanti. Oltre a quello di togliermi delle soddisfazioni personali, ho quindi sempre avuto l’obiettivo di riuscire, in quegli anni, a costruirmi qualcosa che mi permettesse, una volta smesso, di avere una certa solidità economica. Ci sono dei colleghi che non ci pensano troppo e che una volta appese le scarpe al chiodo si ritrovano a dover lavorare per arrivare a fine mese; io ho invece fin da subito avuto chiarissimo quello che dovevo e volevo fare. Ho fatto dei sacrifici per questo. Ma non mi è pesato».
Il giovane Mario aveva quindi una bella testa.
«Il giovane Mario era una testa calda, non era facile da gestire, era… uno che ha fatto tanti errori. Sono maturato con il tempo, da quando, ai tempi dello Zurigo, ho cominciato a lavorare con il procuratore con il quale ho poi chiuso la carriera. Lui e la mia famiglia mi hanno fatto crescere».
Non fossi stato così fumantino forse non avresti fatto tanta strada.
«Quegli sbagli mi hanno sicuramente portato a essere l’uomo che sono ora. Se potessi dare un consiglio al Mario giovane gli direi “Stai un po’ tranquillo, calmati un attimo, non c’è bisogno di tutto ciò. Pensa a lavorare e non volere tutto e subito, che tanto poi arrivi”».
Qual è stata, in carriera, l’avventura più importante?
«È difficile scegliere. Se proprio devo dirne una, punto su quella vissuta con la Dinamo Zagabria, ovvero la squadra che ho sempre tifato fin da bambino. Nel club mi adoravano, la gente mi amava, nello spogliatoio c’era un bell’ambiente… e poi abbiamo anche avuto tantissimo successo: abbiamo vinto campionati e coppe, abbiamo giocato la Champions e l’Europa League. È stato tutto davvero perfetto».
E qual è invece stato il momento più difficile?
«Qualcuno c’è stato ma non ho recriminazioni. Ci sono stati dei momenti nei quali la mia carriera avrebbe potuto prendere una strada diversa, ma in fondo io sono soddisfatto e poi… io sono fatto così: quando metto un punto poi non mi volto indietro».
Una delle tante sliding doors?
«Nella primavera del 2014, mentre ero a Zurigo, trovai un accordo con una squadra spagnola. Era tutto fatto, mancava solo la classica firma. Visto che non c’era alcuna fretta, decidemmo però di far passare il Mondiale prima di concludere. Io partii per il Brasile e… mi ruppi il crociato. E l’accordo non si fece. Da quella delusione nacque però una delle esperienze più significative della mia carriera. Riprendersi non fu affatto facile. Ritornare da un infortunio del genere, ritrovare la stessa forma e la stessa forza di prima… fu davvero duro. Per ripartire definitivamente nel 2016 decisi di accettare l’offerta del Rijeka. In molti all’epoca si mostrarono scettici, mi guardarono un po’ così. E invece quella scelta fu azzeccatissima. Grazie anche a me, per la prima e unica volta nella storia il club croato riuscì infatti a fare la doppietta campionato-coppa. Fu per me una rivincita, un rilancio. E le prestazioni firmate mi valsero la chiamata della Dinamo Zagabria e il ritorno in Nazionale. A livello emotivo, poi, quell’avventura fu eccezionale».
Chiuso il capitolo calcio hai per caso scoperto problemi che prima non avevi? Tipo ingrassare…
«Quando smetti, dopo che ti sei allenato per tutta la vita, dopo che hai fatto addominali praticamente tutti i giorni, è facile prendere qualche chilo. Ma non è un problema, la vivo con grande serenità. Non me ne frega niente insomma: non faccio diete. Poi comunque qualche caloria riesco ancora a buttarla fuori giocando a padel. Va bene così».