L'appello di Pierre Tami (e non solo): «Ha rischiato più volte la sua vita, la Svizzera ha il dovere di aiutarla»
BERNA - Quando i Talebani hanno preso il potere in Afghanistan nell'agosto del 2021, decine di migliaia di afghani sono fuggiti, mentre altri sono rimasti in un Paese afflitto dalla fame e dalla persecuzione di un regime rigidissimo.
Tra loro c'è una 46enne, madre di quattro figli, che ha lavorato per diverse ONG svizzere negli ultimi 20 anni, e che non riesce però ad ottenere alcun aiuto dalle autorità elvetiche.
Lo riporta un'indagine del Tages Anzeiger, che ha avuto anche modo di sentire telefonicamente la donna, che si nasconde dai Talebani da oltre un anno con la sua famiglia e che si sente «in una prigione», anche perché è considerata una «criminale» dai talebani, come molte altre persone attive a favore dei diritti umani e delle donne.
L'appello di Pierre Tami
Ad esempio, ha lavorato per la fondazione fondata in Cambogia da Pierre Tami, Hagar International, con sede a Zugo, che si occupa della sensibilizzazione e della lotta contro la tratta di esseri umani.
«Non si è mai lasciata intimidire», ha dichiarato al quotidiano zurighese il ticinese, parlando della sua ex collega, che è stata esposta a minacce e pericoli ancor prima dell'ascesa dei Talebani: «Più volte ha ricevuto chiamate e lettere che la minacciavano di morte se avesse continuato a lavorare per gli stranieri e a proteggere le donne. Oppure raccontava in lacrime di essere perseguitata mentre andava al lavoro. Eppure ha sempre voluto continuare ad andare avanti».
Per questo Pierre Tami ha deciso di scrivere al Consiglio federale e alla Segreteria per la Migrazione (SEM): «ha rischiato più volte la sua vita e quella della sua famiglia per aiutare donne estremamente vulnerabili. Anche la Svizzera ha il dovere di aiutarla».
L'importanza dei soldi dello Stato
Seppur entrambi gli interlocutori abbiano assicurato «massima attenzione» al caso della 46enne, i progressi si sono rivelati subito difficili. Il Ministero degli Esteri di Ignazio Cassis ha chiarito che le possibilità d'azione erano «molto limitate» e che «le richieste di aiuto purtroppo numerose», mentre la SEM metteva le mani avanti: «I criteri sono rigorosi».
Le norme svizzere sui visti stabiliscono che la donna deve dimostrare che ci sia una «minaccia immediata, concreta e grave alla vita e all'incolumità fisica» per ottenere un visto umanitario. Inoltre, la SEM richiede ulteriori prove, come ad esempio un «legame stretto e attuale con la Svizzera» - che può essere avere parenti in Svizzera, oppure un'«attività lucrativa» per un'organizzazione svizzera.
Il problema è che la SEM considera il lavoro per una ONG svizzera come una «relazione stretta» solo se questa ONG riceve anche denaro dal governo federale. Seppur i suoi datori di lavoro siano stati cofinanziati ad esempio dalla città di Ginevra, non lo sono mai stati dalla Berna federale.
«Prove insufficienti»
Non è l'unico problema per la donna afghana: le autorità svizzere hanno rifiutato la sua richiesta anche perché non credono alle prove che ha fornito. Nonostante i documenti tra cui il mandato di arresto e un elenco di situazioni di minaccia, per la SEM «non si trova in pericolo immediato e grave di subire danni fisici», né in una situazione di emergenza per cui le autorità svizzere debbano intervenire.
La SEM non si dichiara poi a conoscenza di alcuna «persecuzione» di attivisti a difesa dei diritti umani, nonostante i rapporti delle Nazioni Unite e di altre associazioni come Human Rights Watch. La lettera, inoltre, «è risaputo che può essere acquistata dai falsari» e che «la loro autenticità non può essere confermata», ha riferito la SEM.
Una giustificazione «totalmente assurda», per l'avvocato Paolo Bernasconi, che fornisce assistenza legale ai richiedenti l'asilo. «Ciò che chiede la SEM è assolutamente irrealistico. I terroristi governano l'Afghanistan. Non emettono mandati di arresto come li conosciamo noi» ha dichiarato al quotidiano svizzero.
La 46enne non vuole e non può rinunciare o perdere la speranza, e con l'aiuto di Bernasconi ha impugnato il respingimento della domanda di asilo. Per Bernasconi, una cosa è certa: «La sua vita è in pericolo perché si è battuta per gli interessi delle ONG svizzere. Merita di essere portata in salvo dalla Svizzera».