Il politologo Michael Hermann affonda il ticinese: «Il partito ha certamente avuto figure più robuste in passato».
BERNA - Marco Chiesa è il miglior esempio del fatto che non ha molta importanza chi guida l'UDC, il partito ha successo comunque: è questa, in estrema sintesi, l'analisi del politologo Michael Hermann nel giorno dell'annuncio delle futura partenza del consigliere agli Stati ticinese dalla testa della maggiore formazione politica svizzera.
«Il momento è assolutamente appropriato», commenta il 52enne in un'intervista pubblicata online dal Tages-Anzeiger. «L'UDC ha vinto le elezioni, almeno al Consiglio nazionale. E dopo le elezioni è sempre il momento migliore per dimettersi, perché un partito ha abbastanza tempo per formare qualcuno per il prossimo appuntamento elettorale».
«L'UDC ha certamente avuto figure più robuste», prosegue l'esperto. «Penso ad Albert Rösti e a Toni Brunner, ad esempio, che erano più al centro del potere. Chiesa - insiste Hermann che parla già al passato dell'esperienza del 49enne luganese - «era un presidente che incarnava il partito, ma non era una forza trainante. Questo si riflette nel fatto che in nessuna altra formazione politica c'è un capogruppo parlamentare così forte come Thomas Aeschi».
Il problema di Chiesa, secondo Hermann? «L'arma più importante di un presidente di partito è la lingua e quindi la sua immagine pubblica. Chiesa aveva ovviamente delle barriere linguistiche, il che significava anche che aveva una scarsa presenza pubblica».
I presidenti di partito - argomenta l'accademico con laurea in geografia - hanno due funzioni centrali. In primo luogo, l'impatto esterno: devono trasmettere il messaggio al momento giusto; in secondo luogo, hanno una funzione centrale all'interno, garantendo la coesione all'interno del partito. «Ma nessun altro partito ha un messaggio così chiaro come l'UDC: è la formazione più scettica nei confronti dell'integrazione europea e della migrazione. Sono entrambi temi forti e l'UDC si differenzia molto dagli altri per il suo chiaro posizionamento».
Quindi - chiede la giornalista - alla fine non è importante chi guida l'UDC? «Chiesa ne è il miglior esempio», risponde l'intervistato. «Anche se non era considerato molto popolare all'interno, la coesione è stata sorprendentemente buona. Il partito ha superato bene i dissidi interni dovuti alla pandemia o alla guerra in Ucraina. In ultima analisi Chiesa è stato semplicemente fortunato perché il momento delle elezioni ha coinciso perfettamente con la congiuntura dei temi trainanti. Per Rösti è stato diverso».
I due presidenti in questione sono rimasti in carica solo quattro anni. «Questo è davvero eclatante. Colpiscono anche le difficoltà avute per trovare un successore per Rösti. La scelta di Chiesa è stata quasi impacciata. Ciò dimostra che la carica richiede molto tempo, non è ben remunerata e il margine di manovra è molto limitato. L'UDC non è più in una fase di ascesa in cui potrebbe raggiungere nuove sfere: da anni si aggira tra il 26 e il 29% dell'elettorato, il che rende tutto un po' ripetitivo. Tante cose sono molto collaudate».
Si apre ora forse un futuro per Chiesa in Consiglio federale? «Forse la differenza di peso rispetto ad Albert Rösti è rilevante almeno in questo caso: non credo che Chiesa possa imporsi come candidato al governo federale. Anche perché è molto importante essere ancorato al gruppo parlamentare: il suo sostegno moderato tra i colleghi è un vero e proprio handicap», conclude il politologo.