Il Consiglio nazionale ha approvato un'iniziativa parlamentare di Marco Chiesa.
La proposta, invisa alla sinistra che ci vede un «intento discriminatorio», dovrà ora essere accettata anche agli Stati.
BERNA - In futuro sia i parlamentari che i membri del Consiglio federale dovrebbero essere obbligati a dichiarare se possiedono più nazionalità. Lo ha deciso oggi il Consiglio nazionale per 115 voti a 64 e un'astensione approvando un progetto che realizza un'iniziativa parlamentare di Marco Chiesa (UDC/TI). Il dossier va agli Stati.
Contrario alla modifica dell'ordinanza sull'amministrazione del Parlamento il campo rosso-verde, secondo cui la trasparenza sulle nazionalità ha un intento discriminatorio volto a ingenerare il sospetto che vi siano cittadini di serie "A" e cittadini di serie "B".
Secondo Greta Gysin (Verdi/TI), autrice di una proposta di non entrata nel merito poi respinta per 102 voti a 62, la trasparenza sulla nazionalità invocata dai promotori dell'iniziativa non rappresenta un interesse pubblico, come per esempio i legami d'interesse con associazioni economiche o imprese, che possono effettivamente condizionare l'operato di un deputato tenuto conto delle somme che girano.
L'intento dell'iniziativa, secondo la consigliera nazionale ecologista - sostenuta nelle sue argomentazioni dal PS - è invece tendenzioso poiché suggerisce l'esistenza di un conflitto di lealtà tra chi è Svizzero per nascita e chi non lo è ma lo è diventato per scelta. Insomma, l'idea che si vuol far passare è che chi possiede anche un'altra nazionalità non sia adatto a rappresentare il paese, ha sostenuto Samira Marti (PS/BL). Per Irene Kälin (Verdi/AG), con questa modifica dell'ordinanza stiamo imboccando una strada pericolosa.
Per Marco Romano (Centro/TI), invece, l'indicazione della nazionalità rappresenta un dato rilevante. Il ticinese, assieme ad altri oratori, ha rinfacciato al campo rosso-verde un atteggiamento contraddittorio, dal momento che questo schieramento politico si erge a paladino della trasparenza ogniqualvolta si tratti di far luce sui legami d'interesse degli eletti, fino a chiedere l'origine dei proventi derivanti da attività che nulla hanno a che fare col mandato del popolo, mentre si tira indietro su questo aspetto.
Stando a Tiana Moser (Verdi liberali/ZH), l'intento discriminatorio denunciato dalla sinistra è «tirato per i capelli». A suo parere, invece, il fatto che si dichiari l'esistenza o meno di più nazionalità è positivo ed ha un effetto propedeutico poiché farà crescere nella popolazione la consapevolezza che molti cittadini svizzeri - uno su quattro - possiedono anche un secondo passaporto. Si tratta di un arricchimento, secondo la consigliera nazionale zurighese, che non fa che illustrare l'apertura e la forte connessione del Paese con l'estero.
Nel suo intervento a favore dell'iniziativa, Damien Cottier (PLR/NE) ha tuttavia giudicato l'esclusione dei consiglieri federali dal progetto una contraddizione che non ha ragion d'essere. La sua proposta d'includere anche i membri dell'esecutivo nella modifica dell'ordinanza è stata accolta per 96 voti a 79.
Stando a Cottier, non è inutile sapere se un eletto ha una seconda nazionalità, specie per chi è membro di una delegazione che cura i rapporti con altri paesi esteri. Non è poi un caso che i diplomatici svizzeri con doppio passaporto non vengano inviati in Paesi con i quali esiste un legame emotivo. E tale ragionamento viene esteso anche alle consorti.
Al termine del dibattito, il plenum ha anche stabilito - 175 voti a 4 - di stralciare dall'ordinanza l'obbligo d'indicare anche un indirizzo postale. Il motivo? Evitare l'invio di corrispondenza non richiesta e fare in modo che i parlamentari vengano molestati al domicilio. Si tratta insomma anche di una questione di rispetto della vita privata e di sicurezza. Per comunicare con gli eletti l'indirizzo di posta elettronica dovrebbe bastare.