Indra Kestenholz venne ferita gravemente sulla porta di casa dalle pallottole di Erminio Criscione. Da quella sera la sua vita è cambiata radicalmente
MASSAGNO – È il 4 marzo del 1992, mercoledì delle Ceneri. Sono le otto di sera. Indra Kestenholz e suo marito Francesco hanno appena finito di cenare, nel loro appartamento al terzo piano di una palazzina del nucleo di Massagno. Lui è sul divano a guardare la televisione, lei è in cucina. Qualcuno suona alla porta e ad aprire va Indra. Davanti a lei si presenta un ometto apparentemente innocuo. Indra non riesce nemmeno a realizzare chi sia, che le pallottole iniziano a trafiggerle le carni. Uno, due, tre, quattro, cinque colpi. Alle gambe, alla schiena. Indra, mentre stramazza al suolo in un lago di sangue, non sa ancora che quell’ometto sull’uscio è Erminio Criscione e che quella sera con il suo fucile kalashnikov aveva causato sei morti e cinque feriti nel suo folle giro per il Ticino. Massagno per Criscione era l’ultima tappa di un pazzesco tour a caccia dei suoi nemici.
Notte di sangue - Sono passati vent’anni dalla maledetta notte della ‘strage di Rivera’, il più grave fatto di sangue del Ticino moderno (per i dettagli si veda l’articolo in basso). E la vita di Indra da allora è cambiata radicalmente. Oggi si racconta con una serenità invidiabile. La incontriamo a casa sua, a Massagno, nello stesso appartamento in cui quella sera rischiò la vita. Sul mobile all’entrata ci sono ancora i segni delle pallottole, su un tavolo invece c’è ‘Innocenti noi’, il libro pubblicato da Indra nel 1996 e che racconta il dramma. “So di essere una persona molto fortunata, le mie ferite erano gravissime. Criscione era un allievo di mio marito in un corso di management ed era stato bocciato. Per questo era venuto da noi quella sera, per vendicarsi. Ma è strano. Ancora oggi non mi spiego perché dopo avere aperto il fuoco su di me, non è andato in sala a cercare Francesco. Per fortuna decise di andarsene”. La donna, madre di tre figli, ricorda la confusione di quegli attimi. “Ero ferita in diversi punti. Provavo un dolore terribile, solo chi è già stato disgraziatamente colpito da un’arma da fuoco può capire cosa intendo. Poi ho perso i sensi e mi sono risvegliata in ambulanza, mi stavano portando a Mendrisio. Io mi chiedevo perché non mi portassero al Civico di Lugano. Non sapevo ancora che là c’erano altre cinque persone ricoverate d’urgenza proprio per causa di Criscione”.
Il lungo viaggio - Una lunga riabilitazione, una lunga serie di operazioni (“preoccupavano soprattutto le condizioni di un polmone”), un lento ritorno alla normalità. “All’inizio mi svegliavo di notte e pensavo a quell’uomo, a cosa gli fosse passato per la testa. Diversi mesi dopo ebbi l’occasione di incontrare le altre persone colpite dalla sua follia, gente che aveva perso dei famigliari. Fu un momento emotivamente toccante. Mi sono posta molte domande. Quella sera mio figlio era appena uscito di casa, cosa sarebbe accaduto se avesse tardato un attimo? Altri non hanno avuto la mia stessa fortuna”. La nascita del nipotino Gregory nel 1993 rappresenta un vero toccasana per Indra. “Occuparmi di lui è stato terapeutico. A un certo punto, all’età di 3 anni, voleva sapere con insistenza perché il ‘cacciatore’ mi avesse sparato. E così ho iniziato a scrivere il libro ‘Innocenti noi’. Per Gregory, ma anche e soprattutto per me. Ho scoperto una nuova passione, la scrittura, in seguito ho pubblicato altri due libri e adesso ne sto scrivendo un quarto”.
La svolta – Indra, che fino al momento della tragedia era semplicemente un’insegnante di inglese, nel frattempo decide di frequentare la scuola di psichiatria sociale a Mendrisio. “Ho deciso di iscrivermi spinta dal desiderio di capire cosa fosse scattato nella testa di Criscione. Non sono mai riuscita a capirlo veramente, quello che ho capito è che la mente umana è davvero imprevedibile. Chi di noi non ha mai litigato con qualcuno? Chi di noi non si è mai trovato in situazioni come quelle che hanno spinto Criscione a compiere un Massacro? Con il senno di poi mi spiace che Criscione si sia impiccato. Avrei voluto sentire le sue motivazioni, le ragioni di tanta rabbia ”. La donna inizia anche a fare volontariato in diverse associazioni. “Ho cambiato davvero modo di pensare, quando vivi una cosa così capisci che nulla è scontato. Ora vivo giorno per giorno. Sono riuscita a vedere il positivo in tutta questa storia. Certo, se mi metto nei panni di chi ha perso un famigliare mi rendo conto che per loro forse non vale la stessa cosa”.
Patrick Mancini