Intervista alla senatrice a vita italiana, deportata ad Auschwitz-Birkenau a soli 13 anni. Oggi compie 90 anni
Il rapporto con i ragazzi. L'importanza di testimoniare. La rinuncia ad odiare. Il suo "racconto luganese" in un libro appena uscito, edito da Casagrande. 10 frasi di Liliana Segre da non dimenticare
MILANO - «Considerato che Hitler mi voleva uccidere e che io invece sono addirittura diventata mamma e poi nonna, mi sembra che alla fine ho vinto io». Si chiudeva così il toccante discorso che Liliana Segre tenne a Lugano il 3 dicembre del 2018 all’Università della Svizzera italiana, di fronte a una fitta platea di ragazzi. Aveva 88 anni. Oggi Liliana Segre compie 90 anni, e la sua vittoria continua ancora. La descrizione della sua terribile esperienza nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau è sempre stato un momento di grande emozione. La senatrice italiana lo ha raccontato tantissime volte in oltre 30 anni di testimonianze in giro per l’Italia. Ma a Lugano quel giorno c’era una emozione più forte del solito: il suo discorso si teneva in Svizzera, il paese che l’8 dicembre del 1943 respinse lei, suo padre, e suoi due cugini, impedendole di trovare ospitalità nel nostro cantone. La fuga si fermò ad Arzo. Liliana Segre fu rispedita in Italia, dove fu successivamente arrestata e deportata ad Auschwitz. Quel giorno di due anni fa, a Lugano, Manuele Bertoli, capo del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, chiese pubblicamente scusa per la prima volta dopo 75 anni per il comportamento delle guardie di confine. Oggi quel discorso che si tenne a Lugano è stato pubblicato in un libro dal titolo “Scegliete sempre la vita. La mia storia raccontata ai ragazzi”, edito da Casagrande.
Ha raccontato la sua storia a migliaia di ragazzi. Anche a Lugano c’era un pubblico soprattutto di giovani studenti. Ogni volta l’hanno ascoltata in grande silenzio. Ogni volta ha regalato forti emozioni. Cosa le hanno regalato invece i ragazzi in tutti questi anni di attività?
«I ragazzi mi regalano sempre grandi emozioni. Ed è per questo che sopporto la fatica e il dolore che provo nel testimoniare. Lo faccio perché sono convinta che almeno ad uno di loro rimarrà quello che cerco di trasmettere: un messaggio di memoria e di pace. Perché non si deve dimenticare, è impossibile perdonare, ma non bisogna odiare. Quando mi capita di incontrare
persone adulte che mi raccontano di quando da ragazzi mi avevano ascoltata durante una testimonianza, allora penso che raccontare sia servito».
Si ricorda la sua prima volta davanti a un pubblico numeroso?
«La prima testimonianza la feci in una classe. La mia amica Goti Bauer, anche lei sopravvissuta ad Auschwitz, mi incoraggiò moltissimo. Lei aveva capito l’importanza di testimoniare quello che avevamo vissuto, affinché si sapesse. Ma io ci ho messo anni».
Quando è nata esattamente l'esigenza di raccontare l'esperienza da lei vissuta ad Auschwitz-Birkenau?
«L’esigenza di raccontare è arrivata insieme alla nascita del mio primo nipote. Se prima mi rifiutavo di farlo, con quell’evento, ho sentito come un rigurgito: un prorompere della storia che mi arrivava dallo stomaco e che non potevo più trattenere. Dopo la prima testimonianza, il raccontare è diventato una necessità che vivo come un dovere. Ma ora sento la necessità di fermarmi».
Nell'inverno del 1943, durante la fuga con suo padre e due cugini, venne fermata in Ticino e arrestata. La Svizzera decise di non accoglierla. Cosa ha provato in tutti questi anni nei confronti di un paese che le impedì l'ospitalità, determinando per lei e suo padre un destino così atroce?
«La Svizzera ha dato asilo a molti ebrei in quel periodo. Quindi non ho mai nutrito alcun sentimento negativo nei confronti del Paese. Semmai non posso dimenticare il funzionario al confine, che pur sapendo cosa ci aspettava, nonostante le mie suppliche ci ha respinto in Italia con disprezzo, dove poi fummo arrestati. Ognuno ha la responsabilità individuale delle scelte che
compie».
Si è mai chiesta nel corso della sua vita perché lei è riuscita a salvarsi, e altri no? E come è riuscita a salvarsi, cosa l'ha spinta a non arrendersi, ad andare avanti.
«Sono viva per caso. Ad Auschwitz si poteva morire in ogni momento. Appena sono arrivata, durante la selezione, sono stata separata dal mio amato padre – che non ho mai più rivisto. Per caso sono finita nel gruppo delle donne destinate a diventare lavoratrici schiave. Perché sembravo più grande della mia età. Durante la marcia della morte bastava cadere per essere uccisi. Io ho pensato solo che dovevo mettere un piede davanti all’altro».
Come è stata la sua vita, quando è tornata in Italia?
«Quando sono tornata, la mia storia non interessava a nessuno. Tutti volevano dimenticare. Io mi sono chiusa in me stessa, mi sono dedicata allo studio. Che mi ha salvata. Poi all’età di 18 anni ho incontrato l'uomo che sarebbe diventato mio marito. Ho conosciuto l’amore e costruito una famiglia. Tutto questo mi ha dato la forza di non arrendermi».
Quella fuga in Svizzera: «Mi sentivo un'eroina»
“Papà, fuggiamo, andiamo in Svizzera”. Era questo il sogno di una ragazzina di 13 anni. Trovare la libertà in Svizzera. Nei primi giorni di dicembre del 1943 quel sogno diventò per un attimo realtà. C’erano i documenti falsi per attraversare il confine. “La felicità era alle stelle – ricorda Liliana Segre - mi sentivo già un’eroina, un personaggio di uno di quei film molto ingenui che avevo visto da bambina; pensavo che avrei scalato le montagne, che ero una clandestina con le carte false”. Poi lo scontro con la drammatica realtà. Liliana, suo padre, e due suoi cugini, vengono fermati su territorio elvetico. I soldati svizzeri li accompagnano al comando di polizia di Arzo. Furono interrogati. L’ufficiale svizzero li trattò con disprezzo. Accusò il padre di Liliana di essere un “impostore che non vuole fare il militare”. Definì Liliana “una ragazza sciocca”, i due cugini anziani “due vecchi che davano solo fastidio perché sono da curare”. Insomma furono considerate persone indesiderate. “Siccome in Italia c’è la guerra e qui la guerra non c’è, ha pensato bene di venire qui in villeggiatura” disse l’agente svizzero. A noi valse la scena pietosa di Liliana che si gettò ai piedi del poliziotto e inizio a piangere pregandolo di farli restare in Svizzera. Per loro si decise il rimpatrio in Italia. Un destino segnato: l’arresto a Como, il carcere di San Vittore a Milano, e la successiva deportazione ad Auschiwitz-Birkenau. Da quel campo Liliana tornò sola.