Covid-19, Christian Garzoni, specialista in malattie infettive: «Basta diramare le cifre dei contagi ogni giorno».
La gente intanto è stufa delle mascherine. «Lo capisco. Ma sarebbe folle dire che tutto è finito solo perché i numeri ticinesi sono bassi. Dobbiamo tenere duro tutti insieme».
LUGANO - Bus e treni in cui studenti e lavoratori sono stipati, uno accanto all’altro, con le mascherine sul volto. Radiografia di un giorno di settembre in un folle 2020, l’anno del Covid-19. Intanto, si va verso l’autunno, verso l’inverno, verso il periodo delle influenze. Cosa ci aspetta? «Cerchiamo di vivere i mesi che verranno con serenità e con realismo – esorta Christian Garzoni, specialista di malattie infettive –. Le incognite ci sono. Ma sappiamo come gestirle, e c’è bisogno dell’aiuto di tutti».
Ma come? Lei non era il terrorista?
«Non sono mai stato un terrorista. Anche se qualcuno l’ha detto. Al contrario penso sia giusto trasmettere una certa tranquillità alla popolazione, cosa che ho cercato di fare in questi mesi, incoraggiando ognuno a fare la propria parte, anche nei periodi difficili. Ad esempio, non bisognerebbe più bombardare la gente con i dati giornalieri dei contagi. Basterebbe comunicarli settimanalmente. Così una persona si fa un’idea di come il virus sta andando, ma riesce comunque a pensare anche a cose positive».
La gente però è curiosa, vuole sapere, si chiede se tutto questo avrà una fine…
«Dare una risposta chiara è difficile. Ci sono tre grosse incognite, ad oggi senza risposta, da cui dipenderà il futuro del Covid-19. Bisognerà vedere se si troverà un vaccino valido. Occorrerà capire se chi ha già preso il virus sviluppa un’immunità durevole e quindi non lo potrà più riprendere. E poi si dovrà considerare che i coronavirus sono mutevoli, magari si ripropongono in altre forme, più deboli o più forti. Questa incertezza fa parte della vita. Non ci deve però impedire di vivere bene».
Quando vede bus strapieni cosa pensa?
«Se la gente indossa la mascherina, si possono ridurre le distanze sociali. C’è però anche il discorso dell’igiene delle mani, che va mantenuta. Dopo oltre sei mesi penso che gli abitanti della Svizzera italiana abbiano capito come muoversi, ma non sempre tutti lo mettono in atto».
In molti sono stufi di portare la mascherina. Soprattutto ora che i numeri a sud delle Alpi sono bassi.
«Lo capisco, ma dobbiamo farlo come prevenzione per noi stessi e per gli altri. E per evitare nuove chiusure e fare in modo che non ci sia un secondo lockdown. Anche se credo che una situazione come quella della scorsa primavera, probabilmente, non si ripresenterà più. C’è un ulteriore motivo a favore di un uso generale delle mascherine al chiuso: si ipotizza che se una persona inala poco virus, tende ad ammalarsi in maniera più lieve. Al contrario, se si inala tanto virus, c’è il rischio di ammalarsi fortemente. La mascherina, insieme a una certa attenzione, sono uno sforzo che chiediamo alla popolazione. Non sarebbe ragionevole dire alle persone che ora siamo fuori pericolo».
D’accordo, parliamo di anziani. Nelle case di riposo si è contenuto il Covid, ma molti ospiti si trovano regrediti dal profilo cognitivo e motorio.
«La casa per anziani è purtroppo un luogo molto pericoloso quando si è confrontati con un virus altamente contagioso. È un po’ come la caserma o il collegio. Quando ci sono tante persone che vivono insieme, il virus si propaga velocemente. Lo abbiamo visto concretamente in primavera. E lo si è visto con il recente caso di Friburgo».
Quindi per non fare ammalare gli anziani di Covid, dobbiamo tenerli isolati facendoli "rimbambire"?
«Premetto che non mi sono occupato direttamente della tematica delle case per anziani. Le autorità sanitarie e l’ufficio del medico cantonale emanano le direttive. Ma ritengo che coi numeri bassi che ci sono attualmente, è plausibile un certo allentamento delle misure, in particolare sul tema delle visite. È importante bilanciare il chiaro rischio di epidemia all’interno della struttura, e quindi la necessità di protezione, con i bisogni del singolo ospite e cercare di rendere il più umano possibile il distacco. Ad esempio se qualcuno volesse vedere il partner o un figlio tutti i giorni, forse bisognerebbe consentire eccezioni. È fondamentale però che la popolazione, ma in generale la società e soprattutto l’ospite e i suoi cari, capiscano che ottenere più visite significa potenzialmente creare più rischio e quindi anche più potenziali contagi. Questo rischio andrebbe accettato senza accuse a posteriori. Difficile trovare il buon equilibrio e impossibile azzerare il rischio.».
Un messaggio agli abitanti della Svizzera italiana in vista della stagione a rischio?
«Fate tutti la vostra parte, e mantenete il rispetto per questo virus. Senza, però, diventare paranoici. Il sistema sanitario oggi è nettamente più preparato rispetto a febbraio. Siamo stati uniti in passato e dovremmo restarlo anche in futuro. Voglio pensare positivo e invitare tutti a fare altrettanto».