Il reporter Gianluca Grossi torna in libreria con uno sfogo. «Il conflitto in Ucraina? Narrazione unica. Non ci permette di capirlo».
LUGANO - "Sulla guerra. Perché non riusciamo a non farla" È l'ultima provocazione del reporter ticinese Gianluca Grossi. Un libro edito da Redea Publishing che non mancherà di fare discutere. D'altronde il 56enne giornalista è abituato a non usare mezzi termini. Su Piazza Ticino, Grossi si racconta.
Perché questo libro?
«Viene dal più intimo di me stesso. È la confessione di un reporter che per anni ha visto la guerra, che oggi vuole renderla impensabile, quindi impossibile. Un reporter che forse l'ha anche capita. Sullo sfondo naturalmente c'è la guerra in Ucraina».
Un conflitto, quello tra Russia e Ucraina, che oggi sentiamo già molto lontano rispetto a un anno e mezzo fa.
«È un meccanismo che fa parte della natura dell'essere umano, dai combattenti, ai civili, agli spettatori lontani come siamo noi oggi. Cambiamo. Diventiamo un'altra persona di fronte o dentro una guerra. Una persona che, però, non ci è estranea. Riusciamo a convivere con la guerra dal momento in cui la realtà di cui essa è portatrice si ripete ogni giorno, senza variazioni. Per quanto sia tragica questa ripetizione».
Per la guerra in Ucraina ci sono dei buoni e dei cattivi.
«È la semplificazione massima. Classica. Va bene per la politica. E anche per i mezzi di informazione. Trovo che questa guerra non sia stata raccontata affatto. O meglio, c'è stata una narrazione unica. Da subito si è deciso di tralasciare una spiegazione più complessa. È stata messa al bando. Si sarebbe dovuto spiegare anche tutto ciò che è venuto prima. Perlomeno dal 2008 in poi. Si è scelta una spiegazione di questo conflitto che non ci permette di identificarne le radici. La gente è così costretta ad accettare una narrazione semplificata e artificiale».
Perché non riusciamo a non fare la guerra?
«La guerra è un trucco, è ricca di sotterfugi. Ci spinge a credere, ad esempio, che non esista più alcuna realtà al di fuori di lei. È facile da fare. Si presta a qualsiasi genere di narrazione, persino a quella che la trasforma in ciò che la guerra non è, in una cosa addirittura bella, eroica, luminosa, purificatrice. In realtà, la guerra ci chiede soltanto di essere fermata, di non essere mai più pensata. Nel libro lo spiego in modo approfondito».
Si può avere la passione per la guerra?
«Forse passione non è la parola giusta. Ammetto che quando raccontavo la guerra mi piaceva farlo. Sentivo di essere dove dovevo essere. L'ho capito solo con gli anni. La guerra mi faceva sentire vivo. Proprio quando la mia vita era esposta al punto massimo di pericolo, io mi sentivo vivo».
Nel libro lei non parla solo di Russia e Ucraina...
«Racconto l'occupazione e la fuga dall'Afghanistan degli eserciti USA e NATO. L'invasione dell'Iraq. La guerra in Libano. Le disavventure in Libia e in Siria. E anche il conflitto israelo-palestinese su cui mi sono fatto le ossa».
Aveva tanto da buttare fuori?
«Era giunto il momento di parlare anche di me. Detesto il dito puntato. Mi metto in gioco. Sono passato attraverso varie tappe del giornalismo, ho raccontato anche io la guerra in certi modi. Ho capito le trappole che la guerra ci tende. Ci caschiamo sempre, trasformandoci nei suoi volonterosi servitori».