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Un paese allo sbaraglio: «La gente muore di fame»

HAITI/CANTONEUn paese allo sbaraglio: «La gente muore di fame»

13.03.24 - 06:30
La testimonianza di due missionari ticinesi ad Haiti, dove la violenza esplosa nella capitale sta portando il paese alla guerra civile.
AFP
Un paese allo sbaraglio: «La gente muore di fame»
La testimonianza di due missionari ticinesi ad Haiti, dove la violenza esplosa nella capitale sta portando il paese alla guerra civile.

LUGANO - Un paese allo sbaraglio, una crisi umanitaria alimentata da un'insurrezione armata delle bande criminali che stanno portando l’isola sull’orlo di una guerra civile. Haiti è ormai ingovernabile e, dopo averci provato per poco più di due anni, l’ha capito anche il premier Ariel Henry che ha gettato ieri la spugna. «Prendiamo atto delle dimissioni del premier Ariel Henry», ha detto Mohamed Irfaan Ali presidente della Comunità dei Caraibi (Caricom), annunciando un «accordo per un governo di transizione che aprirà la strada a una transizione pacifica del potere». Accordo poi rifiutato dal capo delle bande criminali haitiane, Jimmy Chérizier, che ha ribadito di essere impegnato in una «rivoluzione sanguinosa».

Il premier getta la spugna
Dimissioni chieste a gran voce dalle gang criminali che stanno terrorizzando da settimane il paese. Una spirale di violenza culminata con l’assalto ai due più importanti carceri dell’isola e la liberazione di migliaia di detenuti. La polizia è sovrastata da un’onda d’urto che, al momento, sembra inarrestabile. «Le forze di sicurezza haitiane sono impotenti contro le bande ben armate che sono diventate un esercito organizzato», ha spiegato il presidente della Conferenza episcopale di Haiti Max Leroy Mésidor.

Lo spettro di una guerra civile si fa quindi sempre più concreto. Le strade della capitale sono controllate dalle milizie criminali che si sono unite per rovesciare il governo del presidente. In mezzo al caos e alla violenza che fanno da padrone sull’isola, c’è però ancora qualcuno deciso a portare a termine la propria missione. «Un po’ di paura c’è, non lo nascondiamo. Ma per il momento possiamo lavorare, non ci lasciamo paralizzare dal panico», ci ha confermato Sandro Agustoni, volontario ticinese che con la moglie Nadia lavora sull’isola da due anni per conto della Conferenza Missionaria della Svizzera Italiana.

Keystone

Stress e insicurezza
Sandro e Nadia collaborano con il "Bureau Diocésain d’éducation" nella formazione del personale scolastico. «La nostra base operativa si trova a Miragoane, nel dipartimento di Nippes, a sud-est del paese a circa un’ora e mezza di macchina dalla capitale Port-au-Prince». Per il momento i due missionari ticinesi sono al sicuro. «La parte dell’isola dove abitiamo è piuttosto calma e tranquilla. Non è una zona molto strategica per chi vuole controllare il paese».

Lontani dalla capitale, controllata dalle bande criminali, il lavoro della missione non si è fermato. La spirale di violenza non ha però lasciato indifferente anche i villaggi che per il momento si trovano fuori dalla morsa che stringe la capitale. «La vita è molto dura, i prezzi sono esplosi, il costo della benzina è aumentato, tutto è più caro. La gente muore di fame». Il caos scoppiato da qualche settimana ha alimentato, come benzina sul fuoco, un dramma umanitario che il paese si trascina da ormai troppi anni. 

AFPJimmy Chérizier, detto “Barbecue”, leader delle bande criminali che terrorizzano il paese.

«Loro non possono scappare»
Le voci circolano però rapide sull’isola. I rapimenti, gli assassini e le sparatorie della capitale terrorizzano le notti della popolazione civile. «C'è tanto stress. Lo possiamo percepire nel nostro villaggio. I nostri amici e i nostri colleghi stanno vivendo una situazione molto difficile. C’è tanta insicurezza. La gente si trova completamente allo sbaraglio, non può mangiare. Vive alla giornata. Anche il sistema sanitario non funziona».

«Noi in caso di pericolo possiamo tornare in Svizzera. Loro sono a casa propria e non possono scappare, sono bloccati qui senza che nessuno se ne prenda cura». Quindi, per il momento, la missione prevale sull'insicurezza del paese. «Ora però non possiamo tornare perché l'aeroporto è stato attaccato e non ci sono voli. Ma anche se ci fossero sarebbe troppo pericoloso andare alla capitale a prendere l’aereo. Qui possiamo muoverci e possiamo essere attivi».

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Insegnare a imparare
Sandro e Nadia stanno infatti lavorando a un progetto che non hanno nessuna intenzione di interrompere o di abbandonare. «Sull’isola si contano centinaia di scuole diocesane. Ogni parrocchia dispone di un istituto scolastico», ci spiega Sandro. «Oltre a offrire un’educazione alla comunità di credenti, permette di finanziare la stessa parrocchia attraverso le quote scolastiche degli allievi che possono pagarle. È un mezzo di sussistenza. Queste scuola devono però essere seguite e aiutate. Assieme al bureau cerchiamo di estendere un'educazione di qualità in tutti questi istituti».

Dopo tanti mesi di preparazione ecco che ora sul più bello i due volontari non vogliono vanificare quanto fatto fino a ora. «Stiamo affrontando una tappa cruciale. Vogliamo portare nelle scuole un’educazione che segue un approccio per competenze, dove l'allievo è al centro e non l’insegnante. Abbiamo organizzato dei piani di lezioni in cui si insegna all'alunno a imparare (non solo a imparare a memoria, ma dare i mezzi all’alunno). Per questo stiamo organizzando corsi e formazioni per gli insegnanti e per i direttori pedagogici delle scuole. Siamo a un punto cruciale perché stiamo formando il personale locale che possa portare questo sistema in tutte le scuole». L'ultimo pezzo di un puzzle che non può fare a meno del lavoro dei due missionari, malgrado le incertezze e le violenze.

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