Lo ha sostenuto in aula la 66enne accusata di istigazione e aiuto al suicidio.
LUGANO - «Non l'ho fatto per soldi, l'ho fatto per umanità e per compassione. Vedevo che questa gente era allo stremo». È quanto ha dichiarato oggi alle Assise correzionali di Lugano l'ex infermiera, oggi pensionata, accusata di istigazione e aiuto al suicidio.
La 66enne, che in meno di quattro mesi in quel di Chiasso ha accompagnato sette persone alla morte attraverso il suicidio assistito, è accusata di aver lucrato sulla sua attività, traendo un profitto complessivo, al netto delle spese, di quasi 41mila franchi.
Per questo, secondo la pubblica accusa, avrebbe violato la legge, la quale stabilisce che «chiunque per motivi egoistici istiga alcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria». I fatti sono avvenuti tra ottobre 2016 e febbraio 2017.
La donna ha agito attraverso l'associazione Carpe Diem, da lei fondata a Chiasso nel 2017, e fatturava, per ogni caso, importi diversi, compresi tra i 7'000 e gli 11'500 franchi. Così facendo percepiva guadagni netti, dedotte le spese, compresi tra i 2'500 e gli 8'000 franchi.
Lauti guadagni - Oltre a ciò, la donna percepiva già guadagni importanti, circa 10'000 franchi al mese, per le sue attività di infermiera indipendente e di massaggiatrice terapeutica. «Ogni volta che mi entravano soldi davo un certo quantitativo a diverse associazioni benefiche», ha sostenuto dal canto suo la 66enne.
«Facevo lo stesso in Exit» - Prima della nascita dell'associazione, è poi emerso in aula, la donna aveva già collaborato con Exit Svizzera, accompagnando alla morte, in 13 anni, circa 100 persone. «Con Carpe Diem non facevo niente di più e niente di meno di quello che facevo in Exit», ha dichiarato la 66enne. «Carpe Diem però non è mai stata costituita. L'associazione come tale, formalmente, non esisteva», ha fatto notare il giudice Ermani.
Tempistiche sospette - Le sette persone che hanno proceduto al suicidio assistito affidandosi all'allora infermiera venivano riferite a lei attraverso Exit Italia, è stato spiegato in aula, e si trattava di pazienti che soffrivano di gravi patologie, tra le quali sono state citate «una forma avanzata di tumore alla gola, SLA e cachessia». «Dal momento in cui arrivava la conferma di voler procedere al suicidio assistito all'azione passava però poco tempo», ha osservato Ermani.
Le trattenute - Tornando alla questione finanziaria, il giudice ha poi sollevato un'altra questione. «Ci sono tre persone che si erano interessate al suicidio assistito, ma che alla fine lei non ha mai visto. E lei ha trattenuto per ognuno di loro circa 1'000 franchi a testa. Come mai?». «Per le spese, avevo già ingaggiato i medici e ordinato il medicamento», ha replicato la donna. «Lei quindi mandava avanti le pratiche senza neanche aver visto i pazienti?», ha chiesto il giudice. «Mi premunivo, perché avevo anche altro lavoro da fare».
A prendere la parola è stata poi la procuratrice pubblica Chiara Buzzi, che ha chiesto una pena di sei mesi di detenzione sospesa con la condizionale per un periodo di due anni, più il pagamento di una pena pecuniaria sospesa in una condanna precedente (relativa a un'ingiuria), una multa di 3'000 franchi e la copertura delle spese giudiziarie.
«Occorre innanzitutto spiegare il perché dell'apertura del procedimento penale, avvenimento assai raro in Svizzera per il reato di istigazione e aiuto al suicidio. Come noto, infatti, il diritto elvetico tollera il suicidio assistito se l'atto finale è eseguito dai pazienti e se chi li aiuta non ha alcun interesse personale nella loro morte».
«Puntava su persone disposte a tutto» - La donna, ha spiegato Buzzi, «ha costituito ben due associazioni dopo essersi staccata da Exit, prima aprendo l'associazione Liberty Life, e poi, dopo aver litigato con la sua socia, costituendo informalmente Carpe Diem. Quest'ultima, però, non aveva lo scopo di aiutare gli svizzeri a mettere fine alla loro vita nel rispetto della legge rossocrociata, ma unicamente di far bypassare ai cittadini italiani la legge del loro Paese. Per la 66enne si trattava quindi di attingere a un mercato più che florido, quello italiano, dove tante persone sono disposte a tutto pur di suicidarsi, anche ad attingere a tutti i loro risparmi».
«Lauti guadagni, e mai dichiarati» - L'indagine è stata aperta, ha spiegato Buzzi, «perché era emerso che uno dei pazienti della donna, gravemente disabile, aveva portato con sé ben 11'000 euro in contanti per pagare il suicidio assistito. Da qui si è scoperchiato il vaso di pandora: la donna aveva un lauto guadagno, peraltro mai dichiarato né al fisco né all'AVS. E sapeva bene che le cifre da lei richieste per i suoi servizi erano esorbitanti: il suo scopo era quello di lucrare altamente sulle spalle di queste persone gravemente malate».
«Viveva benissimo, poteva farlo anche gratis» - A dimostrare che la 66enne intendeva trarre un lauto profitto dalla sua attività sarebbero poi «le trattenute di 1'000 franchi che ha fatto a tre persone che, dopo essersi interessate alla procedura, non hanno infine ricorso al suicidio assistito. Sapeva che, vista la loro situazione, non avrebbero avuto le forze per lottare per un risarcimento, e tantomeno per intentare una causa in Svizzera». La donna «viveva poi benissimo a livello economico, guadagnava 10'000 franchi al mese e aveva l'eredità dei genitori. Avrebbe potuto tranquillamente aiutare gratuitamente queste persone, o tuttalpiù incassare un guadagno lecito di 500 franchi a caso».
Insomma, per Buzzi l'imputata «ha agito in modo spregiudicato, in quanto le persone a cui chiedeva questi compensi erano in fin di vita e disposte a tutto per morire, anche a esaurire i risparmi di una vita».
«Agiva in modo accurato e professionale» - La difesa, dal canto suo, ha chiesto il proscioglimento della 66enne. «L'attività dell'associazione è relativa a sette casi: in tutti e sette figura la dichiarazione di suicidio assistito, vi era la prescrizione del medicamento letale e la certificazione dello stato di salute della persona e della sua capacità di discernimento. La signora agiva quindi in modo accurato e professionale», ha esordito l'avvocato Stefano Pizzola.
«Fatturava quanto le altre associazioni» - Per quanto riguarda i motivi egoistici citati dall'articolo 115 del codice penale «la dottrina menziona lo scopo di lucro e viene esplicitato che il movente economico deve essere preponderante. Non sappiamo però quanto guadagnano effettivamente Exit e altre associazioni simili e quali sono i loro costi. Sappiamo unicamente che Exit fattura 7'000 franchi a caso, Dignitas 11'000, Eternal Spirit 9'040 e Life-End 10'500. Quanto fatturava l'imputata è quindi perfettamente in linea con il mercato: sostanzialmente fatturava quello che fatturano tutti gli altri».
Pizzola ha sollevato poi una sentenza emessa in un altro caso giudicato analogo: «Il Bezirkgericht di Uster, constatando che l'associazione Dignitas fatturava il doppio rispetto ai costi del suicidio assistito, ha prosciolto l'imputato in dubio pro reo».
La difesa ha infine evidenziato che la donna ha cessato la sua attività in seguito a un crollo emotivo e attualmente, stando al suo psichiatra, soffre di un disturbo psicotico acuto schizofreniforme.
La sentenza è attesa per le 14.30 odierne.