Trent'anni dalla morte di Rita Atria, la giovane testimone di giustizia considerata la settima vittima di via D'Amelio.
Aveva 17 anni quando - il 26 luglio del 1992 - "volò" dal settimo piano del palazzo in cui era stata trasferita, a Roma. Un suicidio, o forse no, con molti punti mai chiariti. Lo scorso mese di giugno è stata presentata un'istanza per riaprire le indagini sulla sua morte.
ROMA - Il giudice Paolo Borsellino la chiamava "Rituzza". Non era sua figlia, ma era come se lo fosse. Un legame quasi paterno univa il magistrato siciliano a quella giovane che a soli 17 anni aveva trovato il coraggio di denunciare la piovra che le aveva portato via il padre Vito e il fratello Nicola, entrambi affiliati a Cosa nostra. E sempre 17 anni aveva quando - sette giorni dopo la strage di via D'Amelio - trovò la morte, cadendo dal settimo piano del civico 23 di viale Amelia, a Roma. Era il 26 luglio del 1992.
Rita Atria viene ritrovata senza vita sul marciapiede, in una pozza di sangue. Vittima di un apparente suicidio. Lì, dove trova bruscamente fine la sua vita, prende invece il via la sua storia, come oggi la conosciamo. La storia di quella giovane testimone di giustizia, fuggita dalla sua Partanna - nel Trapanese, il feudo mafioso della famiglia Messina Denaro - dopo i primi colloqui con le autorità, alla fine del 1991.
Rita, come ricorda Giovanna Cucè - giornalista e autrice del libro "Io sono Rita" - fa nomi e cognomi. Parla delle gerarchie e delle faide tra le famiglie che si contendono le terre del Belice. Ha 17 anni e ha perso il papà e il fratello. E a guidarla, perlomeno in quel momento, non è l'ideale di debellare quell'abominio che stritola la Sicilia tra le sue spire, quanto la ricerca di una vendetta verso chi le ha strappato gli affetti più cari e la gioventù, costringendola a crescere troppo presto. Ma è solo questione di tempo. Perché quel percorso, iniziato con la sola forza del suo coraggio, l'avrebbe portata all'incontro con Paolo Borsellino, allora a capo della procura di Marsala, e la sostituta procuratrice Alessandra Camassa.
La paura che abbraccia il coraggio
Alle parole della "picciridda" seguono le prime intimidazioni. La giovane ha paura, sa che non può restare più a casa. Non in quella Sicilia. Si imbarca quindi su un volo per Roma e per lei ha inizio una vita diversa. Lontana dalla famiglia. Lontana dalla madre, con cui il rapporto si era deteriorato. Mentre vicina a lei resterà la cognata, Piera Aiello - oggi deputata della Repubblica Italiana - che dopo l'omicidio del marito iniziò lo stesso percorso di Rita. Le due vivranno insieme per alcuni mesi, fino a poco prima del 26 luglio 1992. E insieme erano anche una settimana prima di quel giorno, sedute di fronte al televisore che trasmetteva le immagini dell'inferno desolato di via D'Amelio.
Per Rita in quel momento cambia tutto. La luce che illuminava quel percorso, così gravoso, improvvisamente si spegne. Il giorno dopo la strage, quel vuoto riempie una pagina del suo diario. «Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l'unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi». La paura che lascia la mano del coraggio. «Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta». Il buio.
Da via D'Amelio a viale Amelia. Rita Atria muore sette giorni dopo il magistrato. Il suo corpo viene ritrovato, nel pomeriggio di quel 26 luglio di trent'anni fa, sull'asfalto, sotto l'appartamento protetto in cui si era trasferita solo il giorno prima. La corsa in ospedale non cambierà purtroppo il finale.
Un altro puzzle incompleto
Rita è "volata" giù dal settimo piano. Un suicidio, che forse suicidio non è. Perché, come da "tradizione" di quell'infausto periodo, tanti sono i tasselli che a distanza di tre decenni non trovano incastro. L'appartamento "ripulito" (da chi?). Gli oggetti mai repertati dagli inquirenti, tra i quali un orologio da uomo ritrovato su un mobile. E le anomalie legate alla consulenza chimica e tossicologica, eseguita su Rita solo due mesi dopo la sua morte. Tutti elementi che trovano spazio nell'istanza per la riapertura delle indagini presentata, il mese scorso, da parte dell'Associazione Antimafie Rita Atria e Anna Maria Rita Atria.
La perizia, effettuata nel settembre del 1992, rivelò un tasso alcolico pari allo 0.38% nel sangue della giovane. «È un fatto notorio che l'alcol nel sangue di una persona viva si smaltisce in poche ore. Ma anche post mortem si ha uno smaltimento dell'alcol, sia pur in una misura più lenta, per ossidazione», si legge nell'esposto, che lascia intuire come il quantitativo dovesse essere quindi più elevato ancora al momento della morte. Ma non fu trovata alcuna bottiglia in quell'appartamento. L'ipotesi, sollevata nell'istanza, è che qualcuno possa aver fatto ubriacare Rita per poi «portarsi via le bottiglie vuote». E, proseguendo nella lettura, «anche argomentando nell'ipotesi del suicidio, va valutata un'ipotesi di istigazione» perché «non vi è prescrizione per istigazione al suicidio di un soggetto incapace di intendere e di volere».
La settima vittima di via D'Amelio
La certezza, restituita dagli atti, è che Rita Atria fu lasciata sola. Senza alcuna tutela, a soli 17 anni. Abbandonata da quelle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerla e starle vicino. Con la morte di Borsellino venne meno - prendendo nuovamente in prestito le parole di Giovanna Cucè - anche la «tenerezza dello Stato che protegge». Rimase sola e sola morì, diventando di fatto - come spesso viene ricordata - la settima vittima di via D'Amelio.