Il 19 luglio 1992 moriva, con la sua scorta, il giudice Paolo Borsellino. Ucciso da Cosa nostra 57 giorni dopo Falcone.
Quella di via D'Amelio è la più irrazionale e oscura delle tanti stragi compiute da mani mafiose. E dopo trent'anni - e una sequenza interminabile di processi - ancora non si conoscono né i mandanti esterni né gli autori del suo colossale depistaggio.
PALERMO - Non era tutto finito. Ma in quel tardo pomeriggio di trent’anni fa sembrava davvero che lo fosse. L'inferno sulla terra, un minuto prima che scoccassero le 17 di quella domenica pomeriggio, questa volta in via Mariano D'Amelio, a Palermo. A soli 57 giorni da Capaci, la mano di Cosa nostra spazzava via quello che nel frattempo era diventato il suo nemico più pericoloso, dopo la morte di Giovanni Falcone.
Una Fiat 126, color amaranto, imbottita con quasi un quintale di esplosivo. L'input di un radiocomando. L'esplosione che cancella in un istante le vite del giudice Paolo Borsellino e di cinque componenti della sua scorta. Agostino Catalano. Emanuela Loi. Vincenzo Li Muli. Claudio Traina. Walter Eddie Cosina. Il capoluogo siciliano di nuovo in guerra. Di nuovo «come Beirut»; come avrebbe titolato in prima pagina il quotidiano veronese "L'Arena" l'indomani, "citando" il massacro avvenuto nel 1983 in via Pipitone, con il medesimo modus operandi, in cui fu trucidato l'ideatore del Pool antimafia, Rocco Chinnici.
«È finito tutto», uno Stato in ginocchio
Quell'uno-due brutale, assestato in meno di due mesi, sembrava la fine di tutto. E lo disse proprio in questi termini il giudice Antonino Caponnetto, condottiero del Pool di Palermo. Quel pomeriggio in via D'Amelio era un uomo svuotato. «È finito tutto. Non mi faccia dire altro».
Le sue parole - intrise delle lacrime che, a fatica, tratteneva dietro le grosse lenti degli occhiali e pronunciate mentre stringeva, quasi alla ricerca di un sostegno, la mano del giornalista che lo stava "intervistando" - sono un'istantanea di uno Stato sfibrato, piegato sulle ginocchia e che non sa se e dove troverà la forza per potersi rialzare. Il ritratto di un'Italia che mai era apparsa fragile come in quel momento. Un'immagine potente nella sua debolezza. Che pesa nella memoria collettiva quanto quelle delle carcasse delle automobili devastate; delle nubi di fumo nero che soffocavano via D'Amelio in quel rovente 19 luglio 1992; delle palazzine sventrate e dei brandelli di carne e ossa, frammisti a sangue e polvere, rimasti sull'asfalto. La cornice di una strage brutale che, con il passare degli anni, si scoprirà essere sempre più scevra di qualsiasi senso. Un gesto irrazionale, per le stesse logiche criminali e gli interessi della "piovra".
L'accelerazione di quei 57 giorni
Paolo Borsellino sapeva di avere «poco tempo». Lo ripeteva ossessivamente. A casa. Ai colleghi. E per questo non poteva fermarsi. Ma forse neppure lui pensava che il tempo rimasto fosse così poco. Perché quell'accelerazione improvvisa? La strage di via D'Amelio per Cosa nostra fu, a conti fatti, un grosso autogol. Un «pessimo affare», come ha ricordato di recente l'ex magistrato Gian Carlo Caselli. Se ne resero conto tutti solo qualche settimana dopo, quando il cosiddetto "super decreto" Falcone fu convertito in legge - introducendo l'articolo 41 bis, il "carcere duro" per gli affiliati alle organizzazioni mafiose. La reazione emotiva generata dalla morte del giudice ebbe la sua eco anche nelle aule del Parlamento italiano, spazzando via quelle opposizioni che sembravano poterne ostacolare l'approvazione. Il "capo dei capi", Salvatore Riina, non poteva non aver fatto questo calcolo. Ma non servì a mutare la sua decisione. Questa cosa andava «fatta subito». Borsellino «deve morire subito». Ma per quale motivo?
Si ritorna così alla domanda, tuttora senza risposta, sollevata dopo Capaci. È stata solo mafia? Il boss Salvatore Cancemi, poi divenuto collaboratore di giustizia, rivelò al giornalista Giorgio Bongiovanni - in un'intervista poi raccolta nel volume "Riina mi fece i nomi..." - che il "capo dei capi" era stato preso «per la manina» per compiere le stragi. Lo stesso "u curtu", intercettato a sua insaputa anni dopo nelle ore di socialità presso il carcere milanese di Opera, disse al suo compagno di "passeggiate" che quella di via D'Amelio fu una strage che era stata «decisa alla giornata». «Poi venne quello da me e mi disse: "subito, subito"...». Chi fosse tale «quello», non è tuttora dato saperlo.
A partire da quel momento però, anche nel gotha di Cosa nostra fu chiaro che «Riina doveva rispondere a qualcuno», affermò Cancemi, questa volta citato da Roberto Scarpinato, ex Procuratore generale di Palermo, che al Fatto Quotidiano incornicia quel momento come un bivio, in cui si verifica «un disallineamento tra gli interessi di Cosa nostra e altri interessi. Che cosa si rischiava? Perché Totò Riina decide di anticipare quella strage, facendo pagare a Cosa nostra un prezzo altissimo?». Altre domande.
Quando disse: «Ho visto la mafia in diretta»
Paolo Borsellino inizia veramente a morire tra la fine di giugno e l'inizio di luglio del 1992. Giorni di "corvi" e di "vipere". Giorni in cui il magistrato raccontò alla moglie Agnese di aver «visto la mafia in diretta». Giorni in cui, incredulo che «un amico mi abbia tradito», si ritrovò in lacrime sul divanetto dell'ufficio, di fronte ai colleghi. Chi fosse quell'amico è un altro dei tanti tasselli mancanti nel puzzle delle stragi di quegli anni.
In quelle settimane il magistrato aveva di fronte a sé un solo obiettivo: capire cosa (e chi) ci fosse dietro alla morte dell'amico Giovanni Falcone. Più che un amico. Lo stesso fratello minore del magistrato, Salvatore, lo ha ricordato in più occasioni. «Io sono il fratello anagrafico di Paolo, ma in realtà il suo vero fratello era Giovanni Falcone».
Borsellino aveva gli "strumenti" che gli consentivano di assemblare e decifrare i fatti. E di fatti voleva riferire, in veste di testimone, alla Procura di Caltanissetta. Lo aveva ribadito, con grande durezza, nel suo ultimo discorso pubblico, poco meno di un mese prima della sua morte, a Casa Professa. Ma non fu mai ascoltato. Anche se, come si può leggere nella relazione conclusiva della Commissione parlamentare d'inchiesta sul depistaggio di via D'Amelio, il pm Paolo Giordano disse che «c'era un appuntamento» fissato per il 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage, tra l'allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, e Paolo Borsellino. «Io sono certo che se avesse manifestato questa sua volontà con uno scritto, una telefonata, saremmo corsi da lui», aggiunse il pm Carmelo Petralia alla stessa Commissione, che invece sottolineò come fossero «di tenore ben diverso i ricordi» riferiti da altre testimonianze. Punto - in sospeso - e a capo.
L'agenda rossa, così Borsellino avrebbe «parlato da morto»
Fatti e nomi il giudice Borsellino li annotava rigorosamente anche nelle pagine della sua agenda rossa. Quella scomparsa dalla sua borsa (e mai più ritrovata) pochi minuti dopo l'esplosione della 126. La borsa fu prelevata da un agente - come testimoniato da una fotografia in cui lo si vede allontanarsi dal "budello" di via D'Amelio con la stessa in mano - e poi ricollocata sul sedile dell'auto, ancora avvolta tra le fiamme. In quell'agenda - che il magistrato portava sempre con sé, divenuta l'emblema del colossale depistaggio messo in moto dopo la strage - c'era con ogni probabilità la chiave di lettura della strage di Capaci e, di riflesso, quella che avrebbe consentito di tracciare i nomi dei mandanti esterni che avevano imposto l'accelerazione di via D'Amelio. Di decodificare il «software» di quelle stragi, come lo ha ribattezzato l'ex procuratore Scarpinato, che ha ricordato come «senza far sparire quella, Borsellino avrebbe parlato anche da morto».
E invece, dopo trent'anni e una sequenza interminabile di processi bis, ter e quater, nelle sentenze sono racchiuse meno risposte di quante non siano le domande. Non si conosce il volto delle «persone importanti» citate da Riina, a garanzia della strage di quel 19 luglio. Non si conoscono i nomi di chi ha oliato e guidato la macchina del depistaggio più grande della storia repubblicana della Penisola. Non c'è una sentenza che dica chiaramente chi azionò il telecomando che innescò l'esplosivo che massacrò il giudice e cinque agenti della scorta.
Fu davvero il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, nascosto in quel giardino in fondo al viale? Fu lo stesso giudice, come asserì in un'occasione Riina, ad attivarlo nel momento in cui suonò il citofono a casa della madre? Le domande restano. E più passa il tempo, più diventa lecito chiedersi se la scomparsa di quelli che qualcosa sanno farà, prima o poi, riemergere qualche frammento di verità. O se, al contrario, la farà annegare del tutto.