A colloquio con Kevin Merz, il regista del documentario sul frontman dei Gotthard scomparso esattamente 10 anni fa
LUGANO - Oggi ricorre il decimo anniversario della morte di Steve Lee. Il frontman dei Gotthard perse la vita in un tragico quanto assurdo incidente stradale a Mesquite, nel deserto del Nevada: era il 5 ottobre del 2010.
Ieri sera Storie della Rsi LA 1 ha mandato in onda "Steve Lee, la voce gentile del rock", il documentario di Kevin Merz che già qualche anno fa aveva parlato della più celebre band svizzera con "Gotthard - One Life, One Soul", che prese parte al Locarno Film Festival. «I musicisti continuano a vivere grazie alla loro musica. Steve Lee è sempre presente» ci ha spiegato Merz.
Anche alla luce del precedente film, qual è il tuo rapporto con Steve Lee?
«Ammetto che quando ho iniziato a lavorare a "One Life, One Soul" non sapevo nulla della band: ho un background musicale molto diverso. Ciò che conta, alla fine, sono le vicende umane e, seppur non essendo un esperto, ho intuito che quella era una storia che avrei dovuto raccontare. Quando mi sono inoltrato nel vissuto dei Gotthard mi sono innamorato di questo soggetto».
Quindi non avevi ben chiaro chi fosse Steve, prima di allora?
«L'ho conosciuto tramite il film. Molto bene, tra l'altro: quando entri in confidenza con le persone che ci hanno vissuto accanto approfondisci dei dettagli e ti sembra di aver sempre saputo chi è».
Perché, dopo una narrazione corale, ha sentito l'esigenza di mettere Lee in primo piano?
«Con il taglio che abbiamo dato al film, focalizzato sulla band, non siamo riusciti a far emergere Steve. Sentivo che c'era qualcosa d'irrisolto e mi dicevo: "Ma io devo raccontarlo"».
Che ritratto di Steve è emerso?
«Quello di una persona estremamente speciale, un rocker anti-rocker e un uomo molto timido con un dono immenso che riesce a combattere tutti i suoi dubbi e paure, così da esprimersi e vivere come voleva».
Come ti spieghi che un timido si potesse scatenare in quel modo, una volta salito sul palco?
«Tutte le persone a lui vicine confermano che subiva una metamorfosi assoluta. È un aspetto che mi ha molto affascinato e che riprende temi universali. Forse sentiva di avere questo dono e di non aver altra scelta che combattere la timidezza con il rock. Non a caso nasce batterista, come se volesse nascondersi dietro lo strumento e poi abbia preso consapevolezza del suo dono... Era in conflitto con questo suo aspetto, come se ci fossero due personalità che vivevano in lui: quasi un dottor Jekyll e signor Hyde in versione musicale».
Che rapporto si crea con le persone intervistate?
«Entri in simbiosi con loro, tanto che ti raccontano cose molto private. Grazie a esse si crea il personaggio che viene narrato, la sua essenza si materializza, viene distillata tramite le loro parole».
Cosa è emerso più spesso di lui?
«Svariate cose, tra cui la sua grande professionalità. Era paragonabile a uno sportivo di élite: in 20 anni di carriera ha saltato solo due concerti. Se gli altri andavano a festeggiare dopo lo show lui si preparava subito per quello successivo, come fosse un atleta di altissimo livello. Voleva sempre migliorare».
Sei felice di come è venuto il documentario?
«Sì, molto. Spesso non lo sono, ma questa volta sono soddisfatto. Anche il processo di lavorazione è stato molto bello e di gran lunga meno sofferto del precedente. È importante per me aver chiuso un percorso che si era aperto cinque anni fa. Il decimo anniversario della scomparsa di Steve è il momento perfetto per ricordarlo: si vede che ci ha messo un po' lo zampino affinché tutto andasse liscio».
Quale credi che sia la principale eredità di Steve Lee?
«Per tutti è sicuramente la musica che ha lasciato. Personalmente ho imparato molto non solo come regista, raccontando la sua storia. Il suo modo di affrontare le paure, di cercare sempre di migliorare e trovare se stessi...».
Un aneddoto che ti è rimasto particolarmente a cuore?
«Il dettaglio del cielo sopra il deserto del Nevada che si squarcia e appare un doppio arcobaleno nel cielo, dopo l'incidente, può sembrare una risposta scontata. Quindi direi questo: Steve aveva un campo magnetico molto speciale e faceva andare in tilt i macchinari elettronici e meccanici. Girava la chiave e la macchina non partiva, entrava in studio e le bobine iniziavano a girare al contrario... Una volta il tecnico aveva sistemato un nuovo televisore e lui ha mandato tutto all'aria, solo prendendo in mano il telecomando. Trovo che sia un aneddoto molto particolare, quasi metafisico. Persone speciali hanno un'energia speciale, chiaramente».