"Viaggiavo con un borsello pieno di cd con ecografie e risonanze. Ho temuto di avere qualcosa di grave"
"Ho chiuso per colpa di Allegri, non mi voleva più nello spogliatoio".
PIACENZA - Chiusa senza troppi patemi la stagione con la Reggina e felice di poter capire quello che gli riserverà il futuro, Filippo Inzaghi ha fatto un salto indietro nel tempo con l’autobiografia “Il momento giusto”. Nel libro, il quasi 50enne ha raccontato molto di quanto capitatogli una volta appese le scarpe al chiodo. Anzi, ha cominciato a raccontare proprio dal momento in cui ha smesso con il pallone. Anche se forse sarebbe più corretto dire dal momento in cui “l’hanno fatto smettere”. L’ex campione ha infatti spiegato che il suo ritiro fu causato da Max Allegri, che impose al Milan di non rinnovargli il contratto.
"È stato Allegri a chiudere la mia carriera da giocatore - ha messo nero su bianco SuperPippo - Io e il Milan, infatti, nella primavera del 2012 avevamo trovato un accordo per prolungare di un anno il mio contratto. Io sarei stato un importante collante nello spogliatoio che nel giro di poco tempo aveva perso Maldini, Pirlo, Nesta, Gattuso, Seedorf. Elementi di spessore che avevano lasciato un vuoto profondo. Non avrei accampato alcuna pretesa... Galliani era felice di aver trovato insieme a me questa soluzione. Allegri invece la bocciò, non mi voleva più nello spogliatoio e lo disse al dirigente chiedendo che non mi fosse rinnovato il contratto. Per me fu una mazzata".
Mai decollato, il rapporto tra Max e Pippo toccò il punto più basso nel settembre 2012 quando, da allenatori del Milan - il primo della Prima squadra, il secondo degli Allievi nazionali - si scontrarono nel Centro sportivo rossonero. Il livornese salutò l’emiliano, che gli rispose con un duro “Per me non esisti”. Allegri se la prese e cominciò a insultare, davanti a tutti i presenti, quello che era diventato un suo collega. La situazione degenerò e si arrivò quasi allo scontro fisico.
Il post carriera sul campo fu poi, per Inzaghi, estremamente complicato. Concluso un triennio da allenatore a Milano (dopo gli Allievi guidò Primavera e Prima squadra), si ritrovò senza lavoro. E cominciò a penare. "Nell’autunno del 2015 per la prima volta il pallone era sgonfio: non rimbalzava più. E non riuscii ad assorbire la lontananza dal mio mondo, dal profumo dell’erba, dalla sacralità dello spogliatoio. Mi alzavo al mattino e non sapevo come arrivare a sera. Andavo in palestra, ma senza entusiasmo, solo per far trascorrere il tempo, riempire la giornata ed evitare che la noia e lo sconforto prendessero il sopravvento. Il mio corpo mi mandava segnali inequivocabili di malessere. Mi sono spaventato. Anzi, lo dico chiaramente e senza vergogna: ho avuto paura. Ho fatto quattro gastroscopie e altre analisi poco piacevoli, viaggiavo sempre con un borsello pieno di cd con ecografie e risonanze che mostravo a vari specialisti. Ho temuto di avere qualcosa di grave, perfino la Sla. Sono stati mesi di disagio e sofferenza, in cui faticavo a trovare una via d’uscita. Qualcuno lo chiama male di vivere, qualcuno in un altro modo, io ho preferito dribblare definizioni e diagnosi e affrontare la realtà. Ho capito qual era il problema e l’ho superato poco alla volta, circondandomi dell’amore della famiglia. I miei genitori sono stati eccezionali: hanno compreso ciò di cui avevo bisogno".