Jason Fuchs da anni porta già una protezione per il collo. Argomento su cui si sono accesi i riflettori dopo l’ultimo drammatico episodio
«Nel 2019 sono finito d’urgenza in ospedale. Da lì mi sono detto che dovevo fare qualcosa». Intanto nel suo Losanna, nei piani alti («siamo in fiducia, serviva un po’ più di stabilità»), in questi mesi sono sensibilmente aumentati i giocatori che la indossano.
LOSANNA - I più attenti ai dettagli se ne saranno sicuramente accorti. Due, tre, quattro per squadra, o magari anche di più. Anche in Svizzera i giocatori che indossano una protezione per il collo sono in notevole aumento. Alle nostre latitudini tra i primissimi ci fu l’ex Lugano Andy Näser, ma all’epoca il suo esempio non venne seguito da molti.
Ora, dopo il drammatico episodio che a fine ottobre è costato la vita ad Adam Johnson, i riflettori si sono vigorosamente accesi su questa tematica e si è mossa ufficialmente anche la IIHF, che ha deciso di rendere il paracollo obbligatorio in tutte le sue competizioni (non solo a livello giovanile).
In National League al momento ci si affida alla responsabilità individuale, ma - tra chi da anni già lo indossa - c’è l’ex biancoblù Jason Fuchs, ora in forza al Losanna. Una sorta di precursore nella storia recente del nostro hockey.
«È una protezione che porto già da diversi anni - ci spiega l’attaccante 28enne - Purtroppo, tante volte, finché non capita qualcosa però non ci si pensa. Prima nemmeno io la indossavo. Poi, nel 2019 ai tempi del Bienne, sono stato vittima di uno spaventoso infortunio in un match di Champions Hockey League. Un pattino di un giocatore del Tappara Tampere mi ha colpito dietro all’orecchio sinistro e sono finito d'urgenza in Ospedale. Ho rimediato un taglio profondo, dei punti di sutura e mi hanno dovuto “riparare/ricucire” un nervo».
A Fuchs erano poi servite 3-4 settimane di stop, ma tutto sommato era andata bene.
«Ho avuto fortuna, ma da lì mi sono detto: “No, devo fare qualcosa. Devo indossare una protezione”. Nel mio caso specifico il paracollo non mi avrebbe protetto, ma se l’impatto fosse stato dieci centimetri più in là, poteva andarmi molto peggio. Adesso per me è ovvio indossarlo. Però, finché non ci si sbatte la testa, non ci si pensa ed è un peccato. Nel mondo dell’hockey funziona così e lo so bene, vale anche per la visiera piuttosto che le griglie integrali. Poi ogni tanto vediamo delle bastonate o dei dischi colpire involontariamente un giocatore al volto: è facile farsi davvero male».
Vuoi per comodità, vuoi per una “cattiva” abitudine, ma in effetti è così.
«Sì, ma il proteggi collo può salvare la vita. Siamo già fortunati che di episodi gravi se ne vedono pochissimi. Da una parte capisco che non si voglia obbligare i giocatori a indossarlo, ma dall’altra penso che stia a noi renderci conto del possibile pericolo. In fondo è un piccolo sforzo, anche se da professionista magari sono dieci anni che non lo si porta più».
Negli ultimi mesi qualcosa è cambiato.
«A Losanna adesso siamo già in 5-6 che lo usano, ma so che almeno altri 2-3 miei compagni lo stanno aspettando. Hanno ordinato il modello che porto io».
A questo proposito, visto l’improvviso aumento delle richieste a livello mondiale - in diversi campionati è diventato obbligatorio - i fornitori si stanno muovendo.
«Esatto. Il mio modello è un po’ specifico, lo reputo tra i migliori sul mercato. Non è una protezione “esterna”, ma una tuta con un rinforzo. Stile dolcevita. Costa sui 120 franchi. Ho letto che a Ginevra lo pagherà il CdA, ma penso che non sia necessario. È per la nostra salute e sta ai giocatori. Però capisco e approvo appieno il messaggio che vogliono trasmettere».
Dalla sicurezza alle prestazioni in pista. Il Losanna, quarto con 60 punti, sta vivendo una stagione sicuramente più tranquilla e positiva rispetto alle ultime.
«Diciamo che nell'anno solare c’è stato un clic. A livello di punti avevamo finito bene anche la scorsa annata, compromessa purtroppo dalla prima parte di stagione. Adesso siamo in fiducia e ci siamo confermati nei piani alti come rendimento. Ogni sera abbiamo possibilità di vincere e portare a casa punti.
Sarà banale, ma vincere aiuta a vincere.
«Proprio così. Con Geoff Ward abbiamo trovato stabilità a livello tattico e ci siamo adattati bene al gioco che ci chiedeva. Pretende tanta energia, ma i meccanismi sono chiari e ognuno sa quello che farà il compagno».
Prima, l'impressione, è che a Losanna ci fossero le porte girevoli. Insomma un viavai di giocatori. Tante ambizioni, ma un progetto tecnico poco chiaro. Ora c’è stabilità.
«Sappiamo che nello sport la stabilità e i risultati si trasformano in fiducia e questo permette di lavorare bene. È quello che ci serviva. Le capacità e le skills ci sono sempre state, ma serviva un ambiente un po’ più tranquillo. Adesso stiamo dimostrando che la squadra c’è e funziona».
L’obiettivo è chiudere nella top-6?
«Sì, l’obiettivo sono i playoff e possibilmente vorremmo entrarci dalla porta principale, senza dover passare dal turno precedente che è sempre una pericolosa incognita. Anche perché c’è equilibrio e grande battaglia. Tra il settimo e il decimo posto possono piazzarsi tranquillamente squadre come Davos, Lugano e Ginevra».
Anche l’Ambrì, tua ex squadra, è lì a sgomitare.
«Verissimo. Rispetto a quando c’ero io hanno fatto un grande salto di qualità. Ambrì è diventata una realtà molto attrattiva. Vedo un progetto chiaro e so che i giocatori ci vanno volentieri. Se la giocheranno fino all’ultimo per i playoff o “play-in”, insomma per evitare le vacanze. È bello avere un campionato così intenso e incerto, anche se per i giocatori può essere un po’ stressante…. (ride, ndr)».
A livello personale invece come sta andando? Martedì contro il Bienne hai segnato il game-winning gol (3-2).
«Ha avuto degli alti e bassi, magari in alcuni frangenti mi è mancato anche un pizzico di fortuna. Poi ho cambiato linea e sono passato da centro ad ala. Non è stato semplicissimo ma anch’io mi sto adattando. Adesso abbiamo quattro blocchi che girano e giocano molto bene. Meglio così, piuttosto che mettersi in grande evidenza in un periodo negativo per la squadra».