Arriviamo da due anni difficili, ma cosa ci riserva il futuro? Ne abbiamo discusso con il Medico cantonale
BELLINZONA - Ciò che un tempo vedevamo come un mondo relativamente lontano, quello delle malattie infettive, delle epidemie, si è improvvisamente trasformato in una nuova normalità. Negli ultimi due anni siamo stati infatti confrontati con una pandemia, e negli ultimi mesi si è iniziato a parlare anche di vaiolo delle scimmie, di virus del Nilo occidentale, persino di difterite.
Tra nuovi virus che emergono, e virus che ritornano, ci troviamo quindi in una società diversa, più attenta alle insidie che possono giungere all'improvviso, ma anche più divisa e con uno stile di vita che si rivela sempre più insostenibile? Ne abbiamo parlato in un'intervista con il medico cantonale, Giorgio Merlani, con cui abbiamo esplorato le sfide sanitarie passate e presenti, passando dal ruolo della medicina a quello della popolazione.
Abbiamo passato due anni di pandemia, ora si parla anche di vaiolo delle scimmie, di virus del Nilo occidentale, persino di polio. Cosa sta succedendo?
«È una domanda centrale, la cui risposta è complessa. Il fenomeno è sicuramente dettato dal fatto che c’è una mobilità a livello globale mai vista prima: non c’è solo l’europeo benestante che va dall’altra parte del mondo in vacanza, ma è tutto il mondo che si muove in tutto il mondo. Questo fenomeno è reso ancora più acuto dal fenomeno migratorio, collegato a sua volta a eventi bellici, problemi di siccità, e cambiamento climatico, fattori che spostano masse di persone, che entrano quindi in contatto con altre persone, e questo spiega ad esempio, in parte, la riapparizione della difterite. Da noi la popolazione è ben vaccinata, ma c’è gente che si sposta ad esempio dall’Afghanistan per motivi politici, bellici o economici e arriva in zone dove questo patogeno non c’è. C’è poi anche un'aumentata attenzione diagnostica: questi virus vengono rilevati prima e viene lanciato un allarme, che poi magari non si traduce in un'epidemia o un focolaio, ma il nostro lavoro è anche quello: cercare quello che potrebbe arrivare e informare la popolazione».
C’è secondo lei un’influenza del clima?
«Indubbiamente, il clima cambia tutta una serie di questioni. Ad esempio, il virus della febbre del Nilo occidentale è legato al cambiamento che porta allo spostamento di certi vettori - la zanzara, in questo caso - a delle latitudini in cui prima non c’erano. Per esempio, la febbre del Nilo è collegata anche, ad esempio, alla siccità, perché il vettore principale sono gli uccelli. Quando questi migrano si fermano a delle pozze d’acqua (dove vengono punti e infettati dalle zanzare). Se gli specchi d’acqua sulle rotte migratorie sono pochi e più piccoli, il numero di contatti stretti tra zanzare e uccelli è più elevato, e ciò spiega il fatto che il virus sia arrivato fino da noi».
Dovremmo cambiare il nostro stile di vita?
«In effetti è vero che alcune malattie emergono/riemergono perché siamo molto più all’esterno, a contatto con la natura. L’abbiamo visto molto bene con la borreliosi, la malattia trasmessa dalle morsicature della zecca. Questo tra l’altro permette di fare un collegamento più in generale: la popolazione umana si continua a estendere, i limiti degli insediamenti umani erano prima relativamente lontani dalla giungla/foresta (spazi tradizionalmente occupati dalla natura) mentre ora - con l’estensione della popolazione umana - le città arrivano al margine della giungla e non c’è più questo confine tra mondo umano e mondo animale. Questo favorisce tra l'altro questi passaggi (che abbiamo visto con il coronavirus, ma anche con l’ebola e l’influenza del cammello) di malattie dagli animali all’essere umano. Più in generale, ciò che può essere collegato al comportamento umano è la velocità: una persona in 24 ore può fare il giro del mondo ed entrare in contatto con persone che sono state in contatto con altre X persone (o animali), e le malattie possono quindi diffondersi a una velocità mai vista prima».
Tra la popolazione c’è una certa diffidenza nei confronti dei messaggi delle autorità?
«È un fenomeno che osserviamo, e la cui spiegazione esatta è difficile da dare. Una spiegazione potrebbe essere che quando si entra in contatto con qualcosa che preoccupa o spaventa cerchiamo di rimuoverlo in qualche modo. Il negazionismo è una sorta di fenomeno collettivo di quello che neghiamo a noi stessi quando succede qualcosa (“Ho un sintomo che potrebbe segnalare una patologia grave? Facciamo finta di niente, lo nego, perché questo non mi confronta con il problema e vivo in modo normale”). Quindi qualcuno che viene fuori a dire “guarda che c’è questo virus, questo batterio, ecc” mi confronta con la mia ansia, e più mi confronta e peggio diventa perché e mi richiama al fatto che un rischio in realtà c’è».
La negazione intacca a sua volta la fiducia...
«Viviamo in un mondo sempre più complicato - e allo stesso sempre più conosciuto: con il martellamento tra media e social media ci si confronta ormai con tutti i temi. C’è chi poi segue l’opinione della maggioranza, delle autorità, dei governi... e chi si oppone. È chiaro che chi si oppone deve trovare un motivo, allora elabora una forma conflittuale della cosa («ci nascondono qualcosa») e questo porta a un crollo della fiducia. È un fenomeno che cerchiamo di seguire e razionalizzare, ma che è problematico: abbiamo visto quello che ha generato durante la pandemia. Da un lato durante una crisi è un bene che la popolazione sappia e agisca in modo corretto, dall’altro non vogliamo creare delle spaccature, dei pro- e contro no-vax, ecc… Diventa proprio un problema di società».
C’è invece preoccupazione per quanto riguarda i vaccini (quelli “classici” che vanno somministrati ai bambini)?
«Questo si collega un po’ al concetto dell’informazione e fiducia nelle autorità. Riguardo a queste vaccinazioni c’è però anche un altro fenomeno: i vaccini sono un po’ vittime del proprio successo. Un esempio concreto: qualche anno fa a un corso di comunicazione a Lugano, a cui partecipavano persone da tutto il mondo, abbiamo sviluppato una campagna a favore della vaccinazione all’interno di un Paese, e un collega dell'Azerbaijan ci ha chiesto, confuso, “perché bisogna fare una campagna di vaccinazione per convincere la gente a vaccinarsi? Da noi ucciderebbero per vaccinare i propri figli". Questo perché lì, come altrove, vedono le malattie e il loro effetto nefasto. Da noi, con la stragrande maggioranza della popolazione che è vaccinata e con queste malattie che circolano pochissimo, la gente dice "ma perché devo vaccinarmi per qualcosa che non crea problemi"? Devono poi sicuramente esserci anche motivi più profondi, d’altronde anche quando Edward Yenner ha proposto il vaiolo-vaccino, già ai tempi (1796), c'erano gli oppositori di questa vaccinazione (e qui parlare di informazioni, di successo dei vaccini, di fake news è difficile). C’è quindi qualcosa di insito nella natura umana per cui la morte della malattia è qualcosa di naturale, l’intento dell’uomo è invece sbagliato».
Gli appelli sono spesso quelli di avere meno contatti. Invece di unirci, si rischia che questo ci divida?
«Per cercare di contenere la diffusione di un virus le misure sono quelle che sono (almeno finché non arriva una terapia, un vaccino). Pensiamo all’HIV: negli anni 70 non si parlava di preservativo, dal momento della diffusione dell’HIV se n’è iniziato a parlare e se ne discute molto ancora oggi. Penso che la mascherina avrà in futuro un ruolo importante (non parliamo di coronavirus, ma in generale) perché abbiamo visto che è uno strumento che ha un’efficacia ed è quindi utilizzabile per mitigare la trasmissione di X malattie respiratorie. A livello psicologico, se ci sono malattie e virus che circolano, c’è una parte della popolazione che magari la vive in mondo sereno, mettendosi la mascherina (o meno) e facendo attenzione, e poi c’è la chi vive con grande angoscia, e questo l’abbiamo visto - anche in maniera esacerbata - negli ultimi 2 anni, anche perché ha portato a una spaccatura tra chi voleva più attenzione, più misure, e meno movimento e chi idealmente avrebbe voluto che non si facesse… nulla».
Virus che arrivano, virus che ritornano: la medicina è pronta a queste sfide?
«La medicina deve fare il suo ruolo: abbiamo gli strumenti, le informazioni, e la capacità diagnostica: dobbiamo sapere che un virus c’è. Dopo averlo scoperto c’è poi il contenimento, e in seguito si arriva a produrre vaccini e farmaci, ma ci vuole del tempo e non si possono fare miracoli. Lo abbiamo visto con la pandemia quanto ci è voluto dall’arrivo del virus ai primi strumenti efficaci per contrastarla. Nel frattempo ci sono X malati e l’impatto può essere importante sulla popolazione. La medicina inoltre non è infallibile, dipende dalle sfide che arrivano. Ora abbiamo parlato di nuovi patogeni o riemergenti, ma una delle principali preoccupazioni della medicina è l’apparizione dei geni di resistenza: cosa vuol dire? I batteri che causano la polmonite piuttosto che infezioni della pelle o altre complicazioni dopo la chirurgia (fenomeni conosciuti e ben trattabili) diventano sempre più resistenti a un numero crescente di antibiotici. Già ora abbiamo alcuni germi virtualmente resistenti a tutti gli antibiotici. Ciò significa tornare indietro nella storia al periodo antecedente alla penicillina, quando una persona che aveva una polmonite guariva o moriva. Andando avanti così rischiamo di avere una diffusione di questi germi, e secondo me è questa la sfida più grande della medicina: riuscire a sviluppare antibiotici efficaci anche per questi germi molto resistenti».
C’è chi critica la Svizzera per aver reagito con ritardo, ad esempio per quanto riguarda la fornitura di vaccini contro il vaiolo delle scimmie. A cosa può essere dovuto?
«La Svizzera ha un sistema a livello di autorizzazione, di controllo, e di importazione dei farmaci che è molto sicuro, molto attento e performante, quando le cose si possono fare con calma. Quando c’è un certo livello d’urgenza, non è così facile invece saltare tutte le tappe di sicurezza, quindi a volte prende più tempo. Questo è possibile anche perché c’è un elemento che dimentichiamo: la Svizzera è un paese molto piccolo, molte ditte farmaceutiche neanche si interessano del nostro Paese. Se una ditta ha un vaccino tende a mandare tutti i documenti in Europa, Canada, Usa... paesi che hanno una grande popolazione e un grande bacino economico. Se devono fare documenti extra perché la Svizzera deve passare attraverso il proprio processo di autorizzazione e verifica alcune ditte non lo fanno neanche, visti gli otto milioni di abitanti. È un fenomeno che complica ulteriormente la cosa».
A livello cantonale, guardando indietro a questi ultimi anni, se dovesse dare un feedback all'Ufficio del medico cantonale…?
«Bisogna partire dal presupposto che si può sempre fare meglio, e che è facile criticare dopo. È chiaro che sarebbe più semplice avere uno strumento miracoloso che non esiste, un "retrospettroscopio" (sapendo già qual è la malattia, la cura sarebbe molto più facile). È inoltre difficile criticare se stessi, sia per l’orgoglio personale sia perché i ragionamenti fatti sono quelli che sono stati ritenuti giusti in quei momenti lì. Sono convinto che sulla base delle informazioni che avevamo, le azioni che abbiamo intrapreso erano - in quel momento lì - molto ben fatte. A volte dico che abbiamo avuto persino fortuna, vedendo poi com’è andata. Se poi si parla di poter chiudere prima o dopo le scuole, mettere prima o dopo la mascherina, ecc. avremmo potuto cambiare delle cose, ma questo lo sappiamo grazie al retrospettroscopio».